Francesco De Sanctis - Opera Omnia >> Storia della letteratura italiana |
ildesanctis testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia # LA NUOVA SCIENZA La letteratura non poteva risorgere che con la risurrezione della coscienza nazionale. Come negazione, ebbe vita splendida, che si chiuse col Folengo e l'Aretino. Arrestato quel movimento negativo dal Concilio di Trento, nacque un'affermazione ipocrita e rettorica, sotto alla quale senti una delle forme più deleterie della negazione, l'indifferenza. In quella stagnazione della vita pubblica e privata, non rimane alla letteratura altro di vivo che un molle lirismo idillico, il quale si scioglie nel melodramma, e dà luogo alla musica. Ma quel movimento non era puramente negativo. Vi sorgeva dirimpetto l'affermazione del Machiavelli, una prima ricostruzione della coscienza, un mondo nuovo in opposizione dell'ascetismo, trovato e illustrato dalla scienza. È in questo mondo nuovo che la letteratura dovea cercare il suo contenuto, il suo motivo, la sua novità. Accettarlo o combatterlo era lo stesso. Ma bisognava ad ogni costo avere una fede, lottare, poetare, vivere, morire per quella. I princìpi furono favorevoli. Insieme con la nuova letteratura si era sviluppata un'agitazione filosofica nelle università e nelle accademie, indipendente dalla teologia cattolica o riformista, o piuttosto in opposizione mascherata alla teologia e all'aristotelismo dominante ancora nelle scuole. I liberi pensatori eran detti «filosofi moderni» o i «nuovi filosofi», come predicatori di nuove dottrine, e vedemmo come il Tasso nella sua giovinezza soggiacque alla loro autorità. Tra questi nuovi filosofi, che proclamavano l'autonomia della ragione, e la sua indipendenza da ogni autorità di teologo e di filosofo, disputando soprattutto contro Aristotile, era Bernardino Telesio, dell'Accademia Cosentina, nel quale è già spiccata la tendenza all'investigazione de' fatti naturali e al libero filosofare lasciate da parte le astrazioni e le forme scolastiche. Tra questi «uomini nuovi», come li chiama Bacone, ebbe qualche fama il Patrizi, e Mario Nizzoli da Modena, che combattè ugualmente Aristotile e Platone, fuggì il gergo scolastico, e fu detto dal Leibnitz « exemplum dictionis philosophiae reformatae». Gli uomini nuovi chiamavano pedanti gli avversari, e come portavano i tempi, alternavano le villanie con gli argomenti. Il carattere di questo nuovo filosofare era l'indipendenza della filosofia dirimpetto la fede e l'autorità, il metodo sperimentale, e la riabilitazione della materia o della natura, risecato dalla investigazione tutto ciò che è soprannaturale e materia di fede. Filosofia e letteratura andavano di pari passo; il Machiavelli e l'Ariosto s'incontravano sullo stesso terreno, ciascuno co' suoi mezzi. L'ironia dell'Ariosto ha il suo comento nella logica del Machiavelli. Come negazione, la nuova filosofia era troppo radicale, perchè non solo negava il papato, ma il cattolicismo, e non solo il cattolicismo, ma il cristianesimo, e non solo il cristianesimo, ma l'altro mondo, e non solo l'altro mondo, ma Dio stesso. Non è che queste cose apertamente si negassero, anzi il linguaggio era pieno di cautele e di ossequi, maestro il Machiavelli; ma co' più umili inchini le mettevano da parte, come materia di fede, e vi sostituivano la «natura», il «mondo», la «forza delle cose», la «patria», la «gloria», altri elementi ed altri fini. Era in fondo l'umanismo e il naturalismo, appoggiato alla ragione e all'esperienza, che prendeva il suo posto nel mondo. Questo grande movimento dello spirito che segna l'aurora de' tempi moderni, e che si può ben chiamare il Rinnovamento, avea nell'intelletto italiano la sua posizione più avanzata. Tutte le idee religiose, morali e politiche del medio evo erano parte affievolite, parte affatto cancellate nella coscienza degli uomini colti, anche de' preti, anche de' papi: l'indifferenza pubblica aveva la sua espressione nell'ironia, nel cinismo, nell'umorismo letterario. Ora questa negazione e indifferenza universale non potea produrre un organismo politico e sociale, anzi era indizio più di dissoluzione, che di nuova formazione. La negazione non era effetto di una energica affermazione, come fu per la Riforma, reazione contro il paganesimo e il materialismo della Corte romana prodotta da un vivace sentimento spiritualista, religioso e morale, secondato da passioni e interessi politici. La Riforma riuscì, perchè fu limitata nella sua negazione e nelle sue conclusioni, perchè avea a sua base lo spirito religioso e morale delle classi colte, e perchè, combattendo il papa e sostenendo i principi nella loro lotta contro l'imperatore, seppe metter dalla sua gl'interessi e le ambizioni. Presso noi, la negazione era un fatto puramente intellettuale, e quanto più assolute le conclusioni dell'intelletto, tanto più era debole la volontà e la forza di effettuarle. L'ideale stava a troppa distanza dal reale. La stessa utopia ne' suoi voli d'immaginazione rimaneva inferiore a quella posizione così avanzata dell'intelletto. Rimasero dunque conclusioni accademiche, temi rettorici, investigazioni solitarie nell'indifferenza pubblica. Le stesse audacie del Machiavelli passarono inosservate. La libertà del pensiero non era scritta in nessuna legge, ma ci era nel fatto, e si filosofava e si disputava sopra qualsivoglia materia senz'altro pericolo che degli emuli e invidiosi, che talora concitavano contro gli uomini nuovi le ire papali. Se il movimento avesse potuto svilupparsi liberamente, non è dubbio che avrebbe trovato il suo limite nelle applicazioni politiche e sociali, fermandosi in quelle idee medie, che meno sono lontane dalla realtà, e che si trovano già delineate nel Machiavelli, il più pratico e positivo di quegli uomini nuovi. Avremmo forse avuto la «patria» del Machiavelli, una chiesa nazionale, una religione purgata di quella parte grottesca e assurda, che la rende spregevole agli uomini colti, e una educazione civile dell'animo e del corpo. Ma appunto allora l'Italia perdette la sua indipendenza politica e la sua libertà intellettuale; anzi la vittoria della Riforma in molte parti di Europa rese timidi e sospettosi i governanti, e cominciò feroce persecuzione contro gli uomini nuovi, eretici e filosofi, e più gli eretici, come più pericolosi. Avemmo il Concilio di Trento e l'Inquisizione, e, cosa anco peggiore, l'educazione gesuitica, eunuca e ipocrita. I più arditi esularono; e venne su la nuova generazione, con apparenze più corrette, e con una dottrina ufficiale che non era lecito mettere in discussione. Salvar le apparenze era il motto, e bastava. E ne uscì una società scredente, sensuale, indifferente, rettorica nelle forme, insipida nel fondo, con letteratura conforme. Religione, patria, virtù, educazione, generosità, sono temi poetici e oratorii frequentissimi, con esagerazioni spinte all'ultimo eroismo, perchè in nessuna relazione con la serietà e la pratica della vita. Ma nè l'Inquisizione co' suoi terrori, nè poi i gesuiti co' loro vezzi poterono arrestare del tutto quel movimento intellettuale, che avea la sua base nel naturale sviluppo della vita italiana. Poterono bene ritardarlo tanto e impedirlo nel suo cammino, che ci volle più di un secolo, perchè acquistasse importanza sociale. La reazione aveva anche i suoi uomini dotti. Ma la differenza era in questo, che ne' suoi uomini era stagnata ogni attività intellettuale ed ogni vigore speculativo, volto il lavoro della mente agli accidenti e alle forme, più che alla sostanza, com'era pure de' letterati; dove negli altri hai un serio progresso intellettuale, vivificato dalla fede, e stimolato dalla passione. La reazione avea vinto pienamente, avea seco tutte le forze sociali, e l'opposizione cacciata via dalle accademie e dalle scuole, frenata dall'Inquisizione e dalla censura, toltale ogni libertà e forza di espansione, era una infima minoranza appena avvertita nel gran movimento sociale. Perciò alla reazione mancò la lotta, dove si affina l'intelletto e si accendono le passioni, e per difetto di alimento rimase stazionaria e arcadica. L'attività intellettuale e l'ardore della fede rimase privilegio dell'opposizione, sì che dove trovi movimento intellettuale, ivi trovi opposizione più o meno pronunziata, e spesso involontaria e quasi senza saputa dello scrittore. La storia di questa opposizione non è stata ancora fatta in modo degno. Pure, là sono i nostri padri, là batteva il core d'Italia, là stavano i germi della vita nuova. Perchè infine la vita italiana mancava per il vuoto della coscienza, e la storia di questa opposizione italiana non è altro se non la storia della lenta ricostituzione della coscienza nazionale. Cosa ci era nella coscienza? Nulla. Non Dio, non patria, non famiglia, non umanità, non civiltà. E non ci era più neppure la negazione, che anch'essa è vita, anzi ci era una pomposa simulazione de' più nobili sentimenti con la più profonda indifferenza. Se in questa Italia arcadica vogliamo trovare uomini, che abbiano una coscienza, e perciò una vita, cioè a dire che abbiano fede, convinzioni, amore degli uomini e del bene, zelo della verità e del sapere, dobbiamo mirare là, in questi uomini nuovi di Bacone, in questi primi santi del mondo moderno, che portavano nel loro seno una nuova Italia e una nuova letteratura. E inchiniamoci prima innanzi a Giordano Bruno. Cominciò poeta, fu grande ammiratore del Tansillo. Aveva molta immaginazione e molto spirito, due qualità che bastavano allora alla fabbrica di tanti poeti e letterati; nè altre ne avea il Tansillo, e più tardi il Marino e gli altri lirici del Seicento. Ma Bruno avea facoltà più poderose, che trovarono alimento ne' suoi studi filosofici. Avea la visione intellettiva, o, come dicono, l'intuito, facoltà che può esser negata solo da quelli che ne son senza, e avea sviluppatissima la facoltà sintetica, cioè quel guardar le cose dalle somme altezze e cercare l'uno nel differente. Non era di ugual forza nell'analisi, dove non mostra pazienza e sagacia d'investigazione, ma quell'acutezza sofistica d'ingegno, che fa di lui l'ultimo degli scolastici nelle argomentazioni, e il precursore de' marinisti ne' colori. Supplisce all'analisi con l'immaginazione, fantasticando, dove non giunge la sua visione, saltando le idee medie, e sforzandosi divinare quello che per lo stato allora della cognizione non può attingere. Spesso le sue idee sono immagini, e le sue speculazioni sono fantasie e allegorie. Ci era nel suo petto un dio agitatore, che sentono tutt'i grand'ingegni; ed era un dio filosofico, attraversato e avviluppato di forme poetiche, che gli guastano la visione e lo dispongono più a costruire lui il mondo, che a speculare sulla costruzione di quello. Con queste forze e con queste disposizioni si può immaginare qual viva impressione dovettero fare sul suo spirito gli studi filosofici. La sua cultura è ampia e seria: si mostra dimestico non solo de' filosofi greci, ma de' contemporanei. Ha una speciale ammirazione verso il «divino» Cusano e molta riverenza pel Telesio. Il suo favorito è Pitagora, di cui afferma invidioso Platone. Alla sua natura contemplativa e poetica dovea riuscire sommamente antipatico Aristotile, e ne parla con odio, quasi nemico. Cosa dovea parere a quel giovine tutto quell'edifizio teologico-scolastico-aristotelico sconquassato dagli uomini nuovi, ma saldo ancora nelle scuole, sul quale s'innestava una società corrotta e ipocrita? Il primo movimento del suo spirito fu negativo e polemico, fu la negazione delle opinioni ricevute, accompagnata con un amaro disprezzo delle istituzioni e de' costumi sociali. Era il tempo delle persecuzioni. I migliori ingegni emigravano, regnava l'Inquisizione. E Bruno era frate, e frate domenicano. Come uscì dal convento, e perchè esulò, s'ignora. Ma a quel tempo bastava poco ad essere battezzato eretico: ricordiamo i terrori del povero Tasso. Fuggì Bruno in Ginevra, dove trovò un papa anche più intollerante. Fuggì a Tolosa, a Lione, a Parigi, dove ebbe qualche tregua, e pubblicò il suo primo lavoro. Era il 1582. Aveva una trentina di anni. Cosa è questo primo lavoro? Una commedia, il Candelaio. Bruno vi sfoga le sue qualità poetiche e letterarie. La scena è in Napoli, la materia è il mondo plebeo e volgare, il concetto è l'eterna lotta degli sciocchi e de' furbi, lo spirito è il più profondo disprezzo e fastidio della società, la forma è cinica. È il fondo della commedia italiana dal Boccaccio all'Aretino, salvo che gli altri vi si spassano, massime l'Aretino, ed egli se ne stacca e rimane al di sopra. Chiamasi «accademico di nulla accademia, detto il Fastidito». Nel tempo classico delle accademie il suo titolo di gloria è di non essere accademico. Quel «fastidito» ti dà la chiave del suo spirito. La società non gl'ispira più collera; ne ha fastidio, si sente fuori e sopra di essa. Si dipinge così:
Il mondo gli parve un gioco vano di apparenze, senza conclusione. E il risultato della sua commedia è «in tutto non esser cosa di sicuro; ma assai di negozio, difetto abbastanza, poco di bello e nulla di buono». Nessuno interesse può destare la scena del mondo a un uomo, che nella dedica conchiude così:
Ma non gli s'ingrandisce il senso poetico, il quale è appunto nel contrario, nel dar valore alle più piccole rappresentazioni della natura, e prenderci interesse. Un uomo simile era destinato a speculare sull'uno e sul medesimo, non certo a fare un'opera d'arte. Non si mescola nel suo mondo, ma ne sta da fuori e lo vede nelle sue generalità. Ecco in qual modo dipinge l'innamorato:
E continua di questo passo, ammassando tutt'i luoghi topici della rettorica e tutte le frasi della moda: «cuor mio», «mio bene», «mia vita», «mia dolce piaga» e «morte», «dio», «nume», «poggio», «riposo», «speranza», «fontana», «spirito», «tramontana stella», ed «un bel sol che all'alma mai tramonta», ... «crudo core», «salda colonna», «dura pietra», «petto di diamante», ... «cruda man che ha le chiavi del mio core», «mia nemica», «mia dolce guerriera», «bersaglio sol di tutt'i miei pensieri», e «bei son gli amor miei, non quei d'altrui». È il vecchio frasario de' petrarchisti, venutogli a noia e ammassato qui alla rinfusa. Ci è il critico, non ci è il poeta comico che ci viva dentro e ci si trastulli. Fino il titolo, il Candelaio, lo mena a questa considerazione filosofica: che è la candela destinata a illuminare le «ombre delle idee». Perciò costruisce il suo mondo comico a quel modo che costruisce il suo universo, guardando nelle apparenze l'essenza e la generalità:
Con queste disposizioni non individua, come fa l'artista, ma generalizza, mette insieme le cose più disparate, perchè nelle massime differenze trova sempre il simile e l'uno, e profonde antitesi, similitudini, sinonimi, con una copia, un brio, una novità di relazioni che testimoniano straordinaria acutezza di mente. Chi legge Bruno si trova già in pieno Seicento, e indovina Marino e Achillini. Ecco un periodo alla sua donna:
Sembra un periodo rubato a Pietro Aretino, che ne facea mercato. Il difetto penetra anche nella rappresentazione, essendo i caratteri concepiti astrattamente, perciò tesi e crudi, senza ombre e chiaroscuri, con una cinica nudità, resa anche più spiccata da una lingua grossolana, un italiano abborracciato e mescolato di elementi napolitani e latini. In questo mondo comico i tre protagonisti, che sono i tre sciocchi beffardi e castigati, abbracciano la vita nelle sue tre forme più spiccate, la letteratura, la scienza e l'amore nella loro comica degenerazione. La letteratura è pedanteria, la scienza è impostura, l'amore è bestialità. Il personaggio meglio riuscito è il pedante, che finisce sculacciato e rubato. E il pedante sotto vari nomi diviene parte sostanziale anche del suo mondo filosofico, diviene il suo elemento negativo e polemico. Dirimpetto alla sua speculazione ci è sempre il pedante aristotelico, che rappresenta il senso comune o le opinioni volgari, ed è messo alla berlina. La speculazione si sviluppa in forma di dialogo, dove il pedante rappresenta la parte del buffone resa più piccante dalla solennità magistrale. A questo elemento comico aggiungi un altro elemento letterario, l'allegorico e il fantastico, che lo dispone a inviluppare i suoi concetti sotto immagini e finzioni, com'è nel suo Asino cillenico e nello Spaccio della bestia trionfante. Qui arieggia Luciano, come in altri dialoghi più severamente speculativi arieggia Platone. Il suo dialogo Degli eroici furori ricorda la Vita nuova di Dante, una filza di sonetti, ciascuno col suo comento, il quale nella sua generalità è una dottrina allegorica intorno all'entusiasmo e alla ispirazione. Il contenuto nel Bruno è in molta parte nuovo, ma le sue forme letterarie non nascono dal contenuto, sono appiccate a quello, e sono forme invecchiate e corrotte dal lungo uso, perciò senza grazia e semplicità, e senza calore intimo. Se non disgustano e non annoiano, si dee al suo acuto spirito e alla sua attività intellettuale, che non ti fa mai stagnare, e ti sorprende di continuo con sali, frizzi, antitesi, bizzarrie, concetti e finezze, che è il cattivo gusto degli uomini d'ingegno. Ma quest'uomo così inviluppato in forme tradizionali e già guaste, che accennavano già ad una prossima dissoluzione della letteratura italiana, era nella sua speculazione perfettamente libero, e costruiva un nuovo contenuto, da cui dovea uscire più tardi una nuova critica e una nuova letteratura. La sua filosofia è la condanna più esplicita delle sue forme e de' suoi pregiudizi letterari. Non vo' già analizzare il suo sistema filosofico: chè non fo storia di filosofia. Ma debbo notare le idee e le tendenze che ebbero una decisa influenza sul progresso umano. Ne' suoi primi scritti, tutti in latino, si vede il giovane, a cui si apre tutto il mondo della cognizione, e cerca riassumerlo, costruire l'albero enciclopedico. Raimondo Lullo avea già tentata questa sintesi, come aiuto della memoria. Bruno rifà il suo lavoro, stabilisce categorie e distinzioni, note mnemoniche, o idee generali, intorno a cui si aggruppino i particolari, come «cielo», «albero», «selva». Queste note le chiama «suggelli», a cui è aggiunto «sigillus sigillorum », cioè le idee prime, da cui discendono le altre. Il suo entusiasmo per quest'«architettura lulliana», titolo di un suo scritto, è tale, che la chiama «arte delle arti», perchè vi si trova «quidquid per logicam, metaphysicam, cabalam, naturalem magiam, artes magnas atque breves theoretice inquiritur». Bruno non avea attinto che il meccanismo della scienza, perchè queste categorie o distribuzioni per capi e per materia sono distinzioni formali e arbitrarie, e rassomigliano un dizionario fatto per categorie a soccorso della memoria. Il volgo ci dà molta importanza e crede, imparando quelle categorie, di avere imparato a così buon mercato tutte le scienze. Dicesi che molti gli stessero attorno per aver da lui il secreto di diventar dottori in qualche mese, e che beffati gliene volessero: anzi a queste inimicizie plebee si attribuisce la sua fuga da Parigi e la sua andata a Londra. Ivi continuò i suoi studi lulliani e pubblicò Explicatio triginta sigillorum, con una introduzione intitolata: Recens et completa ars reminiscendi. In questi studi meccanici e formali si rivela già un principio organico, che annunzia il gran pensatore. L'arte del ricordarsi si trasforma innanzi alla sua mente speculativa in una vera arte del pensare, in una logica che è ad un tempo una ontologia. Ci è un libro pubblicato a Parigi nel 1582, col titolo: De umbris idearum, e lo raccomando a' filosofi, perchè ivi è il primo germe di quel mondo nuovo, che fermentava nel suo cervello. Ivi tra quelle bizzarrie mnemoniche è sviluppato questo concetto capitalissimo, che le serie del mondo intellettuale corrispondono alle serie del mondo naturale, perchè uno è il principio dello spirito e della natura, uno è il pensiero e l'essere. Perciò pensare è figurare al di dentro quello che la natura rappresenta al di fuori, copiare in sè la scrittura della natura. Pensare è vedere, ed il suo organo è l'occhio interiore, negato agl'inetti. Ond'è che la logica non è un argomentare, ma un contemplare, una intuizione intellettuale non delle idee, che sono in Dio, sostanza fuori della cognizione, ma delle ombre o riflessi delle idee ne' sensi e nella ragione. Bruno parla con disprezzo dantesco del volgo, a cui è negato il lume interno, la visione del vero e del buono riflesso nella ragione e nella natura; e premette al suo libro questa protesta:
Che vuol dire in buono italiano: - Chi non ci vede, suo danno, e non ci stia a seccare. - Questo concetto rinnovava la scienza nella sua sostanza e nel suo metodo. Il dualismo teologico-filosofico del medio evo, da cui scaturiva il dualismo politico, papa e imperatore, dava luogo all'unità assoluta. E il formalismo meccanico aristotelico-scolastico cedeva il campo a un metodo organico, cioè a dire derivato dall'essenza stessa della scienza. Il nuovo concetto era la chiave della speculazione di Bruno. A Londra Bruno sostenne una disputa sul sistema di Copernico, lungamente da lui narrata e con colori molto comici nella Cena delle ceneri, cioè del primo dì di quaresima. Poi sviluppò più ampiamente le sue idee nel dialogo della Causa, principio e uno, e nell'altro dell'Infinito, universo e mondi, pubblicati a Londra nel 1584. Quei tre libri sono la sua metafisica. Ciò che ti colpisce dapprima in questa speculazione è la riabilitazione, anzi l'indiamento della materia scomunicata, chiamata «peccato». Bruno ha chiara coscienza di ciò che fa. Perchè mette in bocca al pedante aristotelico le opinioni volgari che correvano intorno alla materia. Il pedante è Polinnio, ed è descritto così: «Questo è un di quelli che, quando ti arràn fatta una bella costruzione, prodotta una elegante epistolina, scroccata una bella frase da la popina ciceroniana, qua è risuscitato Demostene, qua vegeta Tullio, qua vive Salustio; qua è un Argo che vede ogni lettera, ogni sillaba, ogni dizione... Chiamano all'essamina le orazioni, fanno discussione de le frasi, con dire: - Queste sanno di poeta, queste di comico, queste di oratore! Questo è grave, questo è lieve, quello è sublime, quell'altro è «humile dicendi genus». Questa orazione è aspera, sarebbe lene, se fusse formata cossì. Questo è un infante scrittore, poco studioso dell'antiquità, non redolet arpinatem, desepit Latium. Questa voce non è tosca, non è usurpata da Boccaccio, Petrarca e altri probati autori... - Con questo trionfa, si contenta di sè, gli piaceno più ch'ogn'altra cosa i fatti suoi: è un Giove che da l'alta specula rimira e considera la vita degli altri uomini suggetta a tanti errori, calamitadi, miserie e fatiche inutili. Solo lui è felice, lui solo vive vita celeste, quando contempla la sua divinità nello specchio di uno spicilegio, un dizionario, un Calepino, un lessico, un Cornucopia, un Nizzolio... Se avvien che rida, si chiama Democrito; se avvien che si dolga, si chiama Eraclito; se disputa, si chiama Crisippo; se discorre, si nome Aristotile; se fa chimere, si appella Platone; se mugge un sermoncello, se intitula Demostene; se construisce Virgilio, lui è il Marone. Qua corregge Achille, approva Enea, riprende Ettore, esclama contro Pirro, si condole di Priamo, arguisce Turno, scusa Didone, comenda Acate, e infine mentre «verbum verbo reddit» e infilza salvatiche sinonimie «nihil divinum a se alienum putat», e così borioso smontando de la sua catedra, come colui c'ha disposti i cieli, regolati i senati, domati gli eserciti, riformati i mondi, è certo che se non fosse l'ingiuria del tempo, farebbe con gli effetti quello che fa con l'opinione. O tempora o mores! Quanti son rari quei che intendeno la natura dei participi, degli adverbi, delle coniunczioni! Polinnio sarebbe immortale, se fosse in azione così vivo e vero, come è dipinto qui, ma l'artista è inferiore al critico, nè il Polinnio che parla è uguale al Polinnio descritto con così felice umore sarcastico. Polinnio sa a mente tutto quello che è stato scritto intorno alla materia, e tutto solo, «ita, inquam, solus ut minime omnium solus», come fosse in cattedra, ti sciorina sulla materia una lezione, anzi, come dice lui, una «nervosa orazione:» «La materia... di peripatetici dal principe..., non minus che dal Platon divino e altri, or «caos», or « hyle» or «silva», or «massa», or «potenzia», or «aptitudine», or «privationi admixtum», or «peccati causa», or «ad maleficium ordinata», or «per se non ens», or «per se non scibile», or «per analogiam ad formam cognoscibile», or «tabula rasa», or «indepictum», or «subiectum», or « substratum», or «substerniculum», or «campus», or «infinitum», or «indeterminatum», or « prope nihil», or« neque quid, neoue quale, neque quantum», tandem ... «femina» vien detta, tandem, inquam, ut una complectantur omnia vocula, «foemina» .» Ebbene, questa materia, che Polinnio per disprezzo chiama «femmina», la «causa del peccato», la «tavola rasa», il «prope nihil», il «neque quid, neque quale, neque quantum», è proclamata da Bruno immortale e infinita. Passano le forme: la materia resta immutabile nella sua sostanza:
E poichè tutte le forme passano, ed ella resta, Democrito e gli epicurei «quel che non è corpo dicono esser nulla: per conseguenza vogliono la materia sola essere la sustanza delle cose, e anche quella essere la natura divina», le forme non essendo «altro che certe accidentali disposizioni della materia», come sostengono i cirenaici, cinici e stoici. Bruno avea dapprima la stessa opinione, diffusa già in molti contemporanei, soprattutto nei medici, parendogli che quella dottrina avesse «fondamenti più corrispondenti alla natura che quei di Aristotile». Cominciò dunque prettamente materialista; ma considerata la cosa «più maturamente» non potè confondere la potenza passiva di tutto e la potenza attiva di tutto, chi fa e chi è fatto, la forma e la materia: onde venne nella conclusione esserci nella natura due sustanze, l'una ch'è forma, l'altra che è materia, la «potestà di fare» e la «potestà di esser fatto». Perciò nella scala degli esseri «c'è un intelletto, che dà l'essere a ogni cosa, chiamato da' pitagorici...'datore delle forme'; una anima e principio formale, che si fa ed informa ogni cosa, chiamata da' medesimi 'fonte delle forme'; una materia, della quale vien fatta e formata ogni cosa, chiamata da tutti 'ricetto delle forme'. Quanto all'intelletto, «primo e ottimo principio», «non possiamo conoscer nulla, se non per modo di vestigio, essendo la divina sostanza infinita e lontanissima da quegli effetti che sono l'ultimo termine del corso della nostra discorsiva facultade ». Dio dunque è materia di fede e di rivelazione, e secondo la teologia e «ancora tutte riformate filosofie» è cosa «da profano e turbolento spirito il voler precipitarsi a ... definire circa quelle cose che son sopra la sfera della nostra intelligenza». Dio «è tutto quello che può essere»; in lui potenza e atto «son la medesima cosa», possibilità assoluta, atto assoluto. «Lo uomo è quel che può essere; ma non è tutto quel che può essere... Quello, che è tutto quel che può essere, è uno il quale nell'esser suo comprende ogni essere. Lui è tutto quel che è e può essere.» In lui ogni potenza e atto è «complicato, unito e uno: nelle altre cose è esplicato, disperso e moltiplicato». Lui è «potenza di tutte le potenze, atto di tutti gli atti, vita di tutte le vite, anima di tutte le anime, essere di tutto l'essere.» Perciò il Rivelatore lo chiama «Colui che è», il «Primo» e il «Novissimo», poichè «non è cosa antica e non è cosa nuova», e dice di lui: «Sicut tenebrae eius, ita et lumen eius». «Atto absolutissimo» e «absolutissima potenza, non può esser compreso dall'intelletto se non per modo di negazione; non può ... esser capito, nè in quanto può esser tutto», nè in quanto è tutto. Ond'è che il sommo principio è escluso dalla filosofia, e Bruno costruisce il mondo, lasciando da parte la più alta contemplazione, che ascende sopra la natura, la quale «a chi non crede è impossibile e nulla». Quelli che non hanno il lume soprannaturale, stimano ogni cosa esser corpo, o semplice, come lo etere, o composto, come gli astri, e non cercano la divinità fuor de l'infinito mondo e le infinite cose, ma dentro questo e in quelle». Questa è la sola differenza tra il «fedele teologo» e il «vero filosofo». E Bruno conchiude: - Credo che abbiate compreso quel che voglio dire. - Il medio evo avea per base il soprannaturale e l'estramondano: Bruno lo ammette come «fedele teologo», ma come «vero filosofo» cerca la divinità non fuori del mondo, ma nel mondo. È in fondo la più radicale negazione dell'ascetismo e del medio evo. Lasciando da parte la contemplazione del primo principio, rimangono due sostanze: la forma che fa e la materia di cui si fa, i due princìpi costitutivi delle cose. La forma nella sua assolutezza è l'«anima del mondo», la cui «intima, più reale e propria facoltà e parte potenziale» è l'«intelletto universale». Come il nostro intelletto produce le specie razionali, così l'intelletto o l'anima del mondo produce le specie naturali, «empie il tutto, illumina l'universo», come disse il poeta: «...totamque infusa per artus / mens agitat molem, et toto se corpore miscet». Questo intelletto, detto da' platonici «fabro del mondo», e da Bruno «artefice interno», «infondendo e porgendo qualche cosa del suo alla materia, ... produce il tutto». Esso è la forma universale e sostanziale insita nella materia, perchè non opera circa la materia e fuor di quella, ma figura la materia da dentro, «come da dentro del seme o radice» forma «il stipe, da dentro il stipe caccia i rami, da dentro i rami le formate brance, da dentro queste ispiega le gemme, da dentro forma, figura e intesse come di nervi le fronde, li fiori e li frutti». La natura opra dal centro, per dir così, del suo soggetto o materia. Sicchè la forma, se come causa efficiente è estrinseca, perchè «non è parte delle cose prodotte»; «quanto all'atto della sua operazione», è intrinseca alla materia, perchè opera nel seno di quella. È causa, cioè, fuori delle cose; ed è insieme principio, cioè insito nelle cose. Non ci è creazione, ci è generazione, o, come dice Bruno, «esplicazione». La forma è in tutte le cose, e perciò tutte le cose hanno anima. Vivere è avere una forma, avere anima. Tutte le cose sono viventi. «Se la vita si trova in tutte le cose, l'anima» è «forma di tutte le cose»: presiede alla materia, «signoreggia nelli composti, effettua la composizione e consistenza delle parti». Perciò essa è immortale e una non meno che la materia. Ma «secondo la diversità delle disposizioni della materia e secondo la facultà de' princìpi materiali attivi e passivi, viene a produr diverse figurazioni». Sono queste forme esteriori, che solo si cangiano e annullano, «perchè non sono cose, ma de le cose, non sono sustanze, ma de le sustanze sono accidenti e circostanze. Perciò dice il poeta: «Omnia mutantur, nihil interit». E Salomone dice: «Quid est quod est? Ipsum, quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum, quod futurum est. Nihil sub sole novum». Vani dunque sono i terrori della morte, e più vani i terrori dell'«avaro Caronte, onde il più dolce della nostra vita ne si rape ed avvelena». Machiavelli avea già parlato di uno «spirito del mondo» immortale ed immutabile, fattore della storia secondo le sue leggi costitutive. Quello spirito della storia nella speculazione di Bruno è il «fabro del mondo», il suo «artefice interno». Dirimpetto alla forma assoluta è la materia assoluta, cioè secondo sè, distinta dalla forma. Come la forma esclude da sè ogni concetto di materia, così la materia esclude da sè ogni concetto di forma. La materia è «informe», potenza passiva «pura, nuda, senz'atto, senza virtù e perfezione», «prope nihil»: è l'indifferente, lo stesso e il medesimo, il tutto e il nulla. Appunto perchè è tutte le cose, non è alcuna cosa. E perchè non è alcuna cosa, non è corpo; «nullas habet dimensiones», è indivisibile, soggetto di cose corporee e incorporee. Se avesse certe dimensioni, certo essere, certa figura, certa proprietà, certa differenzia, non sarebbe assoluta.» Ma forma e materia nella loro assolutezza, come aventi vita propria, estrinseca l'una all'altra, sono non distinzioni reali, ma vocali e nominali, sono distinzioni logiche e intellettuali, perchè «l'intelletto divide quello che in natura è indiviso», com'è vizio di Aristotile, e degli scolastici, che popolarono il mondo di entità logiche, quasi fossero sussistenze reali. Bruno si beffa in molte occasioni di questi filosofi, che moltiplicarono gli enti, immaginando fino la «socrateità» come l'essenza di Socrate, la «ligneità» come essenza del legno. Questa distinzione tra gli enti logici e gli enti reali è già un gran progresso. Non che le distinzioni logiche sieno senza importanza, anzi esse sono una serie corrispondente alla serie delle cose, sono le generalità della natura; il torto è di considerarle cose viventi e reali, e credere, per esempio, che forma e materia sieno due sostanze distinte, appunto perchè possiamo e dobbiamo concepirle distinte. In natura o nella realtà forma e materia sono una sola sostanza. L'una implica l'altra: porre l'una è porre l'altra. La forma non può sussistere se non aderente alla materia, una forma che stia da sè è una astrazione logica Parimente la materia vuota e informe è un'astrazione; essa è come una «pregnante che ha già in sè il germe vivo». Non ci è forma che non abbia in sè «un che materiale», e non ci è materia che non abbia in sè il suo principio formale e divino. Bruno dice: «Lo ente, logicamente diviso in quel che è e può essere, fisicamente è indiviso, indistinto e uno». Perciò la potenza coincide coll'atto, la materia con la forma. Giove, «la essenzia per cui tutto quel ch'è ha l'essere», è «intimamente» in tutto; onde «s'inferisce che tutte le cose sono in ciascuna cosa, e tutto è uno». La materia non è dunque nulla, «prope nihil», come vuole Aristotile; anzi ha in sè tutte le forme, e le produce dal suo seno per opera della natura, efficiente o artefice «interno e non esterno, come aviene nelle cose artificiali». Se il principio formale fosse esterno, si potrebbe dire ch'ella «non abbia in sè forma e atto alcuno»; ma le ha tutte, perchè tutte le caccia «dal suo seno». Perciò la materia non è «quello in cui le cose si fanno», ma quello «di cui ogni specie naturale si produce». Ciò che, oltre i pitagorici, Anassagora e Democrito, comprese anche Mosè, quando disse: «'Produca la terra li suoi animali',... quasi dicesse: 'Producale la materia'». Adunque le «forme» ed «entelechie» di Aristotile e le «fantastiche idee di Platone», i «sigilli ideali separati dalla materia ... son peggio che mostri», sono «chimere e vane fantasie». La materia è fonte dell'attualità, è non solo in potenza, ma in atto; è sempre la medesima e immutabile, in eterno stato, e non è quella che si muta, ma quella intorno alla quale e nella quale è la mutazione. Ciò che si altera è il composto, non la materia. Si dice stoltamente che la materia appetisca la forma. Non può appetere «il fonte delle forme che è in sé», perchè nessuno appete ciò che possiede. E perciò, in caso di morte, non si dee dire che «la forma fugge... o... lascia la materia, ma più tosto che la materia rigetta quella forma» per prenderne un'altra. Il povero Gervasio, che fa nel dialogo la parte del senso comune e volgare, vedendo a terra non solo le opinioni aristoteliche di Polinnio, ma tante altre cose, esce in questa esclamazione: - «Or ecco a terra non solamente li castelli di Polinnio, ma ancora d'altri che di Polinnio!». - Adunque, se gl'individui sono innumerabili, ogni cosa è uno, e il conoscere questa unità è lo scopo e termine di tutte le filosofie e contemplazioni naturali, montando non al sommo principio, escluso dalla speculazione, ma alla somma monade o atomo o unità, anima del mondo, atto di tutto, potenza di tutto, tutta in tutto. Questa sostanza unica è «l'universo, uno, infinito, immobile». «Non è materia, perchè non è figurato, nè figurabile..., non è forma, perchè non informa, nè figura» sostanza particolare, «atteso che è tutto, è massimo, è uno, è universo... È talmente forma che non è forma, è talmente materia che non è materia, è talmente anima che non è anima; perchè è il tutto indifferentemente, e però è uno, l'universo è uno». In lui tutto è centro: il centro è dappertutto e la circonferenza è in nessuna parte, ed anche la circonferenza è dappertutto e in nessuna parte il centro. Non c'è vacuo tutto è pieno: quello in cui vi può essere corpo, e che può contenere qualche cosa, e nel cui seno sono gli atomi. Perciò l'universo è di dimensione infinita e i mondi sono innumerabili. La causa finale del mondo è la perfezione, e agl'innumerabili gradi di perfezione rispondono i mondi innumerabili: animali grandi, co' loro organi e il loro sviluppo, de' quali uno è la terra. Per la continenza di questi innumerabili si richiede uno spazio infinito, l'eterea regione, dove si muovono i mondi, perciò non affissi e inchiodati. Vano è cercare il loro motore esterno, perchè tutti si muovono dal principio interno, che è la propria anima. Il punto di partenza è una reazione visibile contro il soprannaturale e l'estramondano. Il mondo popolato di universali nel medio evo è negato da Bruno in nome della natura. Dio stesso, dice Bruno, se non è natura, è natura della natura; se non è l'anima del mondo, è l'anima dell'anima del mondo. E in questo caso è materia di fede, non è parte della cognizione. La base della sua dottrina è perciò l'intrinsechezza del principio formale o divino della natura. Ciascuno ha Dio dentro di sè. Il vero e il buono luce dentro di noi non per lume soprannaturale, ma per lume naturale. Il naturalismo reagiva contro il soprannaturale. Quelli che hanno lume soprannaturale, come i profeti, cioè a dire che ricevono il lume dal di fuori, egli li chiama «asini» o «ignoranti», de' quali fa un ironico panegirico nell'Asino cillenico, e tra questi e quelli che hanno il lume naturale e vedono per virtù propria è la stessa differenza che è «tra l'asino che porta i sacramenti e la cosa sacra». Quelli sono vasi e strumenti; questi principali artefici ed efficienti: quelli hanno più dignità, perchè hanno la divinità; questi sono essi più degni, e sono divini. L'asinità è la condizione della fede: chi crede, non ha bisogno di sapere; e l'asinità conduce alla vita eterna.
Questa tirata umoristica finisce con un «molto pio» sonetto in lode degli asini, il cui concetto è che «il gran Signor li vuol far trionfanti». Nè solo è l'asino trionfante, ma l'ozio, perchè l'eterna felicità s'acquista per «fede», non per «scienze», e non per «opre». Anche dell'ozio hai un panegirico ironico, e per saggio diamo il seguente sillogismo:
Sillogismo pieno di senso nella sua frivola apparenza. Momo, il censore divino, ne resta intrigato, e dice che «per aver studiato logica in Aristotile non aveva imparato di rispondere agli argomenti in quarta figura». L'ozio fa naturalmente l'elogio dell'età dell'oro, la sua età, il suo regno, e cita i bei versi del Tasso:
E finisce con questa esortazione:
L'ozio e l'ignoranza sono i caratteri della vita ascetica e monacale, della quale Bruno aveva avuto esperienza.
Bruno rigetta quella vita oziosa, che fu detta «aurea», e ch'egli chiama «scempia», fondata sulla passività dell'intelletto e della volontà, e non può parlarne senz'aria di beffa. Il soprannaturale è incalzato ne' suoi princìpi e nelle sue conseguenze. Secondo la morale di Bruno il lume naturale viene destato nell'anima dall'amore del divino, o dal principio formale aderente alla materia, e per il quale la materia è bella. Amare la materia in quanto materia è cosa bestiale e volgare, e Bruno se la prende col Petrarca e i petrarchisti, lodatori di donne per ozio e per pompa d'ingegno, a quel modo che altri «han parlato delle lodi della mosca, dello scarafone, dell'asino, de Sileno, de Priapo, scimmie de' quali son coloro che han poetato a' nostri tempi - dic'egli - delle lodi degli orinali, della piva, della fava, del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del martello, della carestia, della peste». Obbietto dell'amore eroico è il divino, o il formale: la bellezza divina «prima si comunica alle anime, e... per quelle... si comunica alli corpi; onde è che l'affetto ben formato ama... la corporal bellezza, per quel che è indice della bellezza del spirito. Anzi quello che n'innamora del corpo è una certa spiritualità che veggiamo in esso, la qual si chiama 'bellezza', la qual non consiste nelle dimensioni maggiori o minori, non nelli determinati colori o forme, ma in certa armonia e consonanza de membri e colori.» L'amore sveglia nell'anima il lume naturale, o la visione intellettiva, la luce intellettuale, e la tiene in istato di contemplazione o di astrazione, sì che pare insana e furiosa, come posseduta dallo spirito divino. Questo è non il volgare, ma l'eroico furore, per il quale l'anima si converte come Atteone in quel che cerca, cerca Dio e diviene Dio, e avendo contratta in sè la divinità, non è necessario che la cerchi fuori di sè. «Però ben si dice il regno di Dio essere in noi, e la divinitade abitare in noi per forza della visione intellettuale. Non tutti gli uomini hanno la visione intellettuale, perchè non tutti hanno l'amore eroico; ne' più domina non la mente, che innalza a cose sublimi, ma l'immaginazione, che abbassa alle cose inferiori; e questo volgo concepisce l'amore a sua immagine:
L'amore eroico è proprio delle nature superiori, dette «insane», non perchè non sanno, ma perchè «soprasanno», sanno più dell'ordinario, e tendono più alto, per aver più intelletto. La visione o contemplazione divina non è però oziosa ed estrinseca, come ne' mistici e ascetici: Dio è in noi, e possedere Dio è possedere noi stessi. E non ci viene dal di fuori, ma ci è data dalla forza dell'intelletto e della volontà, che sono tra loro in reciprocanza d'azione: l'intelletto, che, suscitato dall'amore, acquista occhio e contempla; e la volontà che, ringagliardita dalla contemplazione, diviene efficace, o doppiata: ciò che Bruno esprime con la formola: «io voglio volere». Dalla contemplazione esce dunque l'azione: la vita non è ignoranza e ozio, anzi è «intelletto e atto mediante l'amore», secondo la formola dantesca rintegrata da Bruno: è intendere ed operare. Maggiori sono le contrarietà e le necessità della vita, e più intensa è la volontà, perchè amore è unità e amicizia de' contrari, o degli oppositi, e nel contrasto cerca la concordia. La mente è unità,;l'immaginazione è moto, è diversità; la facultà razionale è in mezzo, composta di tutto, in cui concorre l'uno con la moltitudine, il medesimo col diverso, il moto con lo stato, l'inferiore col superiore. Come gli dèi trasmigrano in forme basse e aliene, o per sentimento della propria nobiltà ripigliano la divina forma; così il furioso eroico, innalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontà, con l'ale dell'intelletto e volontà intellettiva s'innalza alla divinità, lasciando la forma di soggetto più basso:
«Cangiarsi in Dio» significa levarsi dalla moltitudine all'uno, dal diverso allo stesso, dall'individuo alla vita universale, dalle forme cangianti al permanente, vedere e volere nel tutto l'uno e nell'uno il tutto. O, per uscire da questa terminologia, Dio è verità e bontà scritta al di dentro di noi, visibile per lume naturale; e cercarla e possederla è la perfezione morale, lo scopo della vita. È stato notato che Bruno non ti offre un sistema concorde e deciso. La filosofia è in lui ancora in istato di fermentazione. Hai i vacillamenti dell'uomo nuovo, che vive ancora nel passato e del passato. Combatte il soprannaturale, ma il suo lume naturale, la sua «mens tuens», la sua intuizione intellettiva, ne serba una confusa reminiscenza. Contempla Dio nella infinità della natura, ma non sa strigarsi dal Dio estramondano, e non sa che farsene, rimasto come un antecedente inconciliato della sua speculazione. Ora quel Dio è verità e sostanza, e noi siamo sua ombra, «umbra profunda sumus»; ora quel Dio è proprio la natura, o, «se non è natura, è natura della natura». Ci è in lui confuso Cartesio, Spinosa e Malebranche. Combatte la scolastica, e ne conserva in gran parte le abitudini. Odia la mistica, e talora, a sentirlo, è più mistico di un santo padre. Rigetta l'immaginazione, e ne ha tutt'i vizi e tutte le forme. Manca l'armonia nel suo contenuto e nelle sue forme. E non è maraviglia che anche oggi i filosofi si accapiglino nella interpretazione del suo sistema. Interessantissima è questa storia interiore dello spirito di Bruno nelle sue distinzioni e sottigliezze, e nelle oscillazioni del suo sviluppo; anzi è questa la sua vera biografia. Niente è più drammatico che la vita interiore di un grande spirito nella sua lotta con l'educazione, co' maestri, con gli studi, col tempo, co' pregiudizi, nelle sue imitazioni, fluttuazioni e resistenze. La sua grandezza è appunto in questo, di vincere in quella lotta, cioè che di mezzo a quelle fluttuazioni si stacchino con maggior forza ed evidenza le sue tendenze predilette, che gli danno un carattere ed una fisonomia. E questa fisonomia di Bruno noi dobbiamo cercare, a traverso i suoi ondeggiamenti. Innanzi tutto, Bruno ha sviluppatissimo il sentimento religioso, cioè il sentimento dell'infinito e del divino, com'è di ogni spirito contemplativo. Leggendolo, ti senti più vicino a Dio. E non hai bisogno di domandarti, se Dio è, e cosa è. Perchè lo senti in te, e appresso a te, nella tua coscienza e nella natura. Dio è «più intimo a te che non sei tu a te stesso». Tutte le religioni non sono in fondo che il divino in diverse forme. E sotto questo aspetto Bruno ti fa un'analisi assai notevole delle religioni antiche e nuove. L'amore del divino, il «furore eroico», è il carattere delle nobili nature. E questo amore ci rende atti non solo a contemplare Dio come verità, ma ancora a realizzarlo come bontà. Ivi ha radice la scienza e la morale. Questi concetti non sono nuovi, e di simili se ne trovano nella Scrittura e ne' padri. Ma lo spirito n'è nuovo. Non è solo questo, che «i cieli narrano la gloria di Dio», ma quest'altro, che i cieli sono essi medesimi divini, e si movono per virtù propria, per la loro intrinseca divinità. È la riabilitazione della materia o della natura, non più opposta allo spirito e scomunicata, ma fatta divina, divenuta «genitura di Dio». È il finito o il concreto che apparisce all'infinito, e lo realizza, gli dà l'esistenza. O, come dicesi oggi, è il Dio vivente e conoscibile che succede al Dio astratto e solitario. L'universo, eterno ed infinito, è la vita o la storia di Dio. Questo è ciò che fu detto il «naturalismo di Bruno», o piuttosto del secolo, ed era il naturale progresso dello spirito, che usciva dalle astrattezze scolastiche, o, come dice Bruno, «dalle credenze e dalle fantasie», e cercava la sua base nel concreto e nel finito era la prima voce della natura che scopriva se stessa e si proclamava di essenza divina, una e medesima che la divinità, «secondo che l'unità è distinta nella generata e generante, o producente e prodotta». Bruno nel suo entusiasmo per la natura divina dice che lo spirito eroico
cioè dove s'intende ed è intelligibile. Questa visione di Dio, privilegio dello spirito eroico, non ha nulla a fare col lume soprannaturale, con la fede, o la grazia, o l'estasi, o altro che dal di fuori piova nell'anima. Dio, fatto conoscibile nel mondo, diviene materia della cognizione, e l'anima effettua la sua unione con lui per un atto della sua energia, per intrinseca virtù. La visione è intellettiva, e il suo organo è la mente, dove Dio, o la Verità, si rivela, come «in propria e viva sede», a quelli che la cercano, «per forza del riformato intelletto e volontà», cioè per la scienza. L'amore del divino, spinto sino al «furore eroico», lega Bruno co' mistici. Il naturalismo letterario era pretto materialismo, che si sciolse nella licenza e nel cinismo, e mise capo in ozio idillico snervante, peggiore dell'ozio ascetico. Il naturalismo di Bruno era al contrario non il divino materializzato, ma la materia divinizzata. La materia in se stessa è volgare bestialità; essa ha valore come divina. Il divino non è infuso o intrinseco, ma è insito e connaturato. Cercarlo ed effettuarlo è il degno scopo della vita. E non si rivela se non a quelli che lo cercano e lo conquistano col lavoro della mente illuminata dall'amore eroico. Ciò distingue i vulgari da' nobili spiriti. Molti sono i chiamati, pochi gli eletti. «Molti rimirano, pochi vedono.» Bruno parla spesso con tale unzione e con tale esaltazione mistica, che ti pare un Dante o un san Bonaventura. Ma i mistici sono semplicemente contemplanti, dove per Bruno non è contemplazione nella quale non sia azione, e non è azione nella quale non sia contemplazione. La nuda contemplazione è ozio. Contemplare è operare. Si vede l'uomo che esce dal convento ed entra nella vita militante. Folengo esce dal convento, rinnegando Dio e sputando sul viso alla società. In lui il secolo scettico e materialista ha la sua ultima espressione. Anche a Bruno abbonda la satira e l'ironia; anche in lui ci è un lato negativo e polemico, sviluppato con potenza e abbondanza d'immaginazione. Ma questo lato rimane assorbito nella sua speculazione. Il suo scopo è tutto positivo: è la restaurazione di Dio, e con esso del sentimento religioso e della coscienza. Ciò che Savonarola tentò con la fede e con l'entusiasmo, egli tenta con la scienza. Non accetta Dio come gli è dato, nè se ne rimette alla fede, perchè non è un credente. Dio vuole cercarlo e trovarlo lui, con la sua attività intellettuale, con l'occhio della mente. E questo Dio, da lui trovato, e di cui sente l'infinita presenza in se stesso e negl'infiniti mondi e in ciascun essere vivente, nel massimo e nel minimo, non rimane astratta verità nella sua intelligenza, ma scende nella coscienza e penetra tutto l'essere, intelletto, volontà, sentimento e amore. Comincia scredente, finisce credente. Ma è un «credo» generato e formato nel suo spirito, non venutogli dal di fuori. Per questo «credo» non gli fu grave morire ancor giovane sul rogo, dicendo a' suoi giudici le celebri parole: «Maiori forsitan cum timore sententiam in me dicitis, quam ego accipiam». Sembra che il suo maggior peccato innanzi alla Chiesa sia stata la sua fede negl'infiniti mondi, come traspare da questa malvagia ironia dello Scioppio: «Sic ustulatus misere periit, renunciaturus credo, in reliquis illis, quos finxit, mundis, quonam pacto homines blasphemi et impii a romanis tractari solent». Insisto su questo carattere entusiastico e religioso di Bruno, o, com'egli dice, «eroico», che gli dà la figura di un santo della scienza. Quante volte l'umanità, stanca di aggirarsi nell'infinita varietà, sente il bisogno di risalire al tutto ed uno, all'assoluto, e cercarvi Dio, le si affaccia sull'ingresso del mondo moderno la statua colossale di Bruno. Il suo supplizio passò così inosservato in Italia, che parecchi eruditi lo mettono in dubbio. Nè le opere sue vi lasciarono alcun vestigio. Si direbbe che i carnefici insieme col corpo arsero la sua memoria. Anche in Europa il brunismo lasciò deboli tracce. Il progresso delle idee e delle dottrine era così violento, che il gran precursore fu avvolto e oscurato nel turbinìo. Come Dante, Bruno attendeva la sua risurrezione. E quando dopo un lungo lavoro di analisi riappare la sintesi, Jacobi e Schelling sentirono la loro parentela col grande italiano, e riedificarono la sua statua. In Bruno trovi la sintesi ancora inorganica della scienza moderna, con le sue più spiccate tendenze, la libera investigazione, l'autonomia e la competenza della ragione, la visione del vero come prodotto dell'attività intellettuale, la proscrizione delle fantasie, delle credenze e delle astrazioni, un più intimo avvicinamento alla natura o al reale. Dico «tendenze», perchè nel fatto l'immaginazione e il sentimento soprabbondavano in lui, e gli tolsero quella calma armonica di contemplazione, senza la quale riesce difettiva la virtù organizzatrice, e quella pazienza di osservazione e di analisi, senza la quale le più belle speculazioni rimangono infeconde generalità. Quanto alla sua sintesi, il Dio astratto ed estramondano fatto visibile e conoscibile nella infinita natura, l'unità e medesimezza di tutti gli esseri, l'eternità e l'infinità dell'universo nella perenne metempsicosi delle forme, il sentimento dell'anima o della vita universale, l'infinita perfettibilità delle forme nella loro trasformazione, la produttività della materia dal suo intrinseco, l'azione dinamica della natura nelle sue combinazioni, la libertà distinta dal libero arbitrio e rappresentata come la stessa effettuazione del divino o della legge, la moralità e la glorificazione del lavoro, sono concetti che, svolti lungamente e variamente da Bruno in opere latine e italiane, appaiono punti luminosi nella speculazione moderna, e ne trovi i vestigi in Cartesio, in Spinosa, in Leibnitz, e più tardi in Schelling, in Hegel e ne' presenti materialisti. Se dovessi con una sola formola caratterizzare il mondo di Bruno, lo chiamerei il «mondo moderno ancora in fermentazione». Roma bruciava Bruno, Parigi bruciava Vanini. I loro carnefici li dissero atei. Pure Dio non fu mai cosa sì seria, come nel loro petto. - Andiamo a morir da filosofo - disse Vanini, avvicinandosi al rogo. Eran detti anche «novatori», titolo d'infamia, che è divenuto il titolo della loro gloria. Nel 1599. Bruno era già nelle mani dell'Inquisizione, e Campanella nelle mani spagnuole. Nel primo anno del Seicento Bruno periva sul rogo, e Campanella aveva la tortura. Così finiva l'un secolo, così cominciava l'altro. «Tu, asinus, nescis vivere», dicevano a Campanella amici e nemici: «ne loquaris in nomine Dei». E lui prendeva ad insegna una campana, con entrovi l'epigrafe: «Non tacebo». Anche Bruno diceva di sè: «Dormitantium animorum excubitor». La nuova scienza sorge come una nuova religione, accompagnata dalla fede e dal martirio. «Philosophus» diceva il Pomponazzi per esperienza propria «ab omnibus irridetur, et tamquam stultus et sacrilegus habetur; ab inquisitoribus prosequitur, fit spectaculum vulgi: haec igitur sunt lucra philosophorum, haec est eorum merces». Pure questi uomini nuovi derisi, perseguitati, spettacolo del volgo, avevano una fede invitta nel trionfo delle loro dottrine. L'accademia cosentina di Telesio avea per impresa la luna crescente, col motto: «Donec totum impleat orbem». Bruno, perseguitato dal suo secolo, diceva: - La morte in un secolo fa vivo in tutti gli altri. - Campanella paragona il filosofo al Cristo, che il terzo giorno, spezzando la pietra, risorge. Il carattere era pari all'ingegno. Dietro al filosofo ci era l'uomo. Telesio è detto da Bacone il «primo degli uomini nuovi». Ma la novità era già antica di un secolo, e Telesio che avea fatto i suoi studi a Padova, a Milano, a Roma, professato a Napoli, quando, stanco di lotte e di persecuzioni, deliberò di ritrarsi nella nativa Cosenza, vi portò il motto del pensiero italiano, la «filosofia naturale», fondata sull'esperienza e sull'osservazione. Il suo merito è di avere esercitata una seria influenza intellettuale tra' suoi concittadini e di aver fondata sotto nome di «accademia» una vera scuola filosofica. Come Machiavelli, così egli non segue altro che l'osservazione e la natura: «poichè la sapienza umana è arrivata alla più alta cima che possa afferrare, se ha osservato quello che si presenta a' sensi, e ciò che può esser dedotto per analogia dalle percezioni sensibili». Sincero, modesto, d'ingegno non grande ma di grandissima giustezza di mente e di sano criterio, fu benemerito meno per le sue dottrine, che per il metodo ed il linguaggio. E in verità, la grande e utile novità era allora il metodo. Il suo maggiore elogio lo ha fatto Campanella in queste parole: «Telesius in scribendo stylum vere philosophicum solus servat, iuxta verum naturam sermones significantes condens, facitque hominem potius sapientem quam loquacem». L'obbiettivo era sciogliere il pensiero dalla servitù di Aristotile, «tiranno degl'ingegni», e metterlo in diretta comunicazione con la natura, rifarlo libero, ciò che con una precisione uguale alla concisione dice Campanella nel suo famoso sonetto a Telesio:
L'impresa non era lieve. Resistevano tutte le dotte mediocrità, tutto quel complesso di uomini e d'istituzioni che l'Aretino chiamava «la pedanteria», i «Polinnii» di Bruno spalleggiati da francescani, domenicani e gesuiti, e spesso l'ultimo argomento era il rogo, il carcere, l'esilio. Dir cose nuove era delitto non solo alla Chiesa, ma a' principi venuti in sospetto di ogni novità nelle scuole: pure la fede di un rinnovamento era universale, e «Renovabitur» fu il motto del Montano, discepolo di Telesio, nel compendio che scrisse della sua dottrina. Si era fino allora pensato col capo d'altri: gli uomini volevano ora pensare col capo loro. Questo era il movimento. E fu così irresistibile, che la novità usciva anche da' segreti del convento. Fu là che si formò ne' forti studi libera e ribelle l'anima di Bruno. E là, in un piccolo convento di Calabria, si educava a libertà l'ingegno di Tommaso Campanella. Assai presto oltrepassò gli studi delle scuole, e, fatto maestro di sè, lesse avidamente e disordinatamente tutti quei libri che gli vennero alle mani. Nella solitudine si fa presto ad esser dotto. Ivi il giovine raccolse immensi materiali in tutto lo scibile. Il suo idolo era Telesio, il gran novatore; il suo odio era Aristotile con tutto il suo seguito, e, come Bruno, preferiva gli antichi filosofi greci, massime Pitagora. Venuto in Cosenza, i suoi frati, che già conoscevano l'uomo, non vollero permettergli di udire, nè di veder Telesio: ciò che infiammò il desiderio e l'amore. Il giorno che Telesio morì, fu visto in chiesa accanto alla bara il giovine frate, che dovea continuarlo. I cosentini, sentendolo nelle dispute, dicevano che in lui era passato lo spirito di Telesio. La scuola telesiana o riformatrice, come era detta, gli fu tutta intorno, il Bombino, il Montano, il Gaieta, da lui celebrati insieme col maestro. Il suo primo lavoro fu una difesa di Telesio contro il napoletano Marta. Venuto a Napoli per la stampa dell'opera, attirò l'attenzione per il suo ardore nelle dispute, per l'agilità e la presenza dello spirito, per la franchezza delle opinioni, e per l'immenso sapere. E gl'invidiosi dicevano: - Come sa di lettere costui, che mai non le imparò? - E recavano a magia, a cabala, a scienza occulta ciò che era frutto di studi solitari. Le opinioni telesiane poco attecchivano in Napoli, onde il buon Telesio avea dovuto andar via per le molte inimicizie. Anche il Porta ci stava a disagio, e dovea con le commedie far perdonare alla sua filosofia. Naturalmente, si strinse un legame tra Campanella e l'autore della Magia naturale e della Fisionomia. Disputavano, leggevano, conferivano i loro lavori. Frutto di questa dimestichezza fu il libro De sensu rerum, a cui successe l'altro: De investigatione. Ivi si stabilisce per qual via si giunga a ragionare «col solo senso e colle cose che si conoscono pe' sensi»: ciò che è il metodo sperimentale, base della filosofia naturale. Ci si vede l'influenza di Telesio, di Porta e di tutta la scuola riformatrice. Porta potè esser tollerato a Napoli, perchè era non solo gentiluomo e assai riverito, ma uomo di spirito, e amabilissimo. Ma Campanella non sapea vivere, come dicevano i suoi emuli. Era tutto di un pezzo, e alla naturale, veemente, rozzo, audace di pensiero e di parola. E venne in uggia a moltissimi, e anche ai suoi frati, che non gli potevano perdonare l'odio contro Aristotile. Come Bruno, lasciò il convento, e indi a non molto Napoli, e con in capo già una nuova metafisica tutta abbozzata, fu a Roma, poi a Firenze, dove il destino faceva incontrare i due grandi ingegni di quel tempo, Campanella e Galilei. Michelangiolo moriva, e tre giorni prima, il 15 febbraio del 1564, nasceva in Pisa Galileo Galilei. Tutto gli rise nel principio, levato maraviglioso grido di sè per le sue invenzioni della misura del tempo per mezzo del pendolo, del termometro, del compasso geometrico, del telescopio. Con questo potente istrumento iniziò le sue speculazioni astronomiche, che rinnovavano il cielo biblico e tolemaico. Parecchi fatti, divinati da Bruno, acquistavano certezza, come ciò che si vede e si tocca. Il suo Nunzio sidereo appariva così maraviglioso, come il viaggio di Colombo. Le montuosità della luna, le fasi di Venere e di Marte, le macchie del sole, i satelliti di Giove erano tali scoperte a breve distanza, che spoltrivano gli animi oziosamente cullati ne' romanzi e nelle oscenità letterarie. La filosofia naturale vinceva oramai le ultime resistenze nella pubblica opinione. Non si trattava più d'ipotesi e di astratti ragionamenti. I fatti erano là, e parlavano più alto che i sillogismi de' teologi e degli scolastici. La cosa effettuale di Machiavelli, il lume naturale di Bruno, il metodo sperimentale di Telesio, la libertà dolce alla verità di Campanella avevano il loro riscontro nelle belle parole di Galileo: - «Ah viltà inaudita d'ingegni servili, farsi spontaneamente mancipio!» -. Il buon Simplicio, il pedante aristotelico, come Polinnio, risponde: - «Ma, quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta nella filosofia?» -. E Galileo replica pacatamente: - «...I ciechi solamente hanno bisogno di guida.. Ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta» -. Il lume soprannaturale, la scienza occulta, il mistero, il miracolo scompariva innanzi allo splendore di questo lume naturale dell'occhio e della mente: la magia, l'astrologia, l'alchimia, la cabala sembravano povere cose innanzi a' miracoli del telescopio. Colombo e Galileo ti davano nuova terra e nuovo cielo. Sulle rovine delle scienze occulte sorgevano l'astronomia, la geografia, la geometria, la fisica, l'ottica, la meccanica, l'anatomia. E tutto questo era la filosofia naturale, il naturalismo. - «La filosofia - diceva Galileo - è scritta nel libro grandissimo della natura.» - E stupendamente diceva Campanella:
Campanella nacque il 1568, quattro anni dopo Galileo. Si videro a Firenze: Galileo già famoso, in grazia della Corte, professore, con un concetto dell'universo e della scienza chiaro, intero, ben circoscritto: Campanella, oscuro, conscio del suo ingegno, di concetti molti e arditi e smisurati, in aria di avventuriere che cerchi fortuna, più che di un savio tranquillo e riposato nella scienza. Cercò una cattedra. - Chi è costui? - E il Granduca chiese le informazioni al generale di San Domenico, il quale rispose: «Alquanto differente relazione tengo io del padre fra Tommaso Campanella di quella è stata fatta a Vostra Altezza... io farò prova del valore e sufficienza sua». Le raccomandazioni di Galileo non valsero contro l'ira domenicana. Campanella non riuscì, e la ragione è detta da Baccio Valori:
Campanella aveva allora ventiquattro anni. L'indomabile giovane si vendicò, scrivendo una nuova difesa di Telesio. Aveva già scritto un trattato De sphaera Aristarchi, dove sostiene l'opinione copernicana del moto della terra. Vagheggiava una scienza universale, col titolo De universitate rerum, che diventò più tardi la sua Philosophia realis. A lui dovea parere molto modesto Galileo, che lasciava da banda teologia e metafisica ed ogni costruzione universale, contento ad esplorar la natura ne' suoi particolari. E gli scriveva: «Invero non si può filosofare, senza un vero accertato sistema della costruzione de' mondi, quale da lei aspettiamo: e già tutte le cose sono poste in dubbio, tanto che non sapemo se il parlare è parlare». Domandava egli a Galileo una riforma dell'astronomia e della matematica sublime, una vera filosofia naturale. «Scriva pel primo» diceva «che questa filosofia è d'Italia, da Filolao e Timeo in parte, e che Copernico la rubò da' predetti e dal ferrarese suo maestro; perchè è gran vergogna che ci vincan le nazioni che noi avemo di selvagge fatte domestiche». Ma Galileo rimase fermo nella sua via. Anche lui aveva i suoi pensieri e le sue ipotesi; ma gli parea che il vero filosofo naturale dovesse lasciare il verisimile, e attenersi a ciò che è incontrastabilmente vero. E rispondea a Campanella ch'ei non volea «per alcun modo, con cento e più proposizioni apparenti delle cose naturali, screditare e perdere il vanto di dieci o dodici sole da lui ritrovate, e che sapeva per dimostrazione esser vere». Stavano a fronte la saviezza fiorentina e l'immaginazione napoletana, o, per dir meglio, due culture, la cultura toscana, già chiusa in sè e matura, e veramente positiva, e la cultura meridionale, ancor giovane e speculativa, e in tutta l'impazienza e l'abbondanza della giovanezza. In Galileo si sente Machiavelli; e in Campanella si sente Bruno. Vedi la differenza anche nello scrivere. Chi legge le lettere, i trattati, i dialoghi di Galileo, vi trova subito l'impronta della coltura toscana nella sua maturità, uno stile tutto cosa e tutto pensiero, scevro di ogni pretensione e di ogni maniera, in quella forma diretta e propria, in che è l'ultima perfezione della prosa. Usa i modi servili del tempo senza servilità, anzi tra' suoi baciamano penetra un'aria di dignità e di semplicità, che lo tiene alto su' suoi protettori. Non cerca eleganza, nè vezzi, severo e schietto, come uomo intento alla sostanza delle cose, e incurante di ogni lenocinio. Ma se causa le esagerazioni e gli artifici letterari, non ha la forza di rinnovare quella forma convenzionale, divenuta modello. Avvolto in quel fraseggiare d'uso, frondoso e monotono, trovi concetti nuovi e arditi in una forma petrificata dall'abitudine, pure eletta, castigata, perspicua, di un perfetto buon gusto. Al contrario in Bruno e in Campanella la forma è scorretta, rozza, disuguale, senza fisonomia; ma ne' suoi balzi e nelle sue disuguaglianze, viva, mobile, nata dalle cose. Ivi ti par di avere innanzi un bel lago, anzi che acqua corrente; non una formazione organica e conforme al contenuto, ma una forma già fissata innanzi e riprodotta, spesso priva di movimenti interni, sola esteriorità: qui vedi una lingua ancora mobile e in formazione, con elementi già nuovi e moderni. Alcune pagine di Bruno sembrano scritte oggi. Ma saviezza fiorentina e immaginazione napoletana erano del pari sospette a Chiesa e Spagna. Il libro della natura era libro proibito, e chi vi leggeva era eretico o ateo. Prima ci capitò Campanella. Fu a Venezia, a Padova, a Bologna, a Roma, co' suoi manoscritti appresso, e scrivendo sempre per sè e per altri, in verso e in prosa, in latino e in italiano, trattati, orazioni, discorsi, dispute. A Bologna gli furono rubati i manoscritti. E che importa? Rifaceva, rinnovava, con una vena inesauribile. Venuto in sospetto a Roma, torna a Napoli, e va a prender fiato a Stilo sua patria. Ivi sperava riposo; ma «accadde a me quello che dice Salomone: quando l'uomo avrà finito, allora comincerà; quando riposerà, sarà affaticato». Ivi cominciarono i suoi guai. Avvolto in una cospirazione, fu come reo di maestà condotto nelle prigioni di Napoli. Chiarito innocente di un'accusa, se ne suscitava un'altra, perchè «gl'iniqui non cercavano il delitto, ma farmi comparir delinquente». - Come sai tu le lettere, se non le imparasti mai? Forse hai addosso il demonio. - «Ma io - rispose il prigioniero - ho consumato più d'olio che voi di vino.» - Lo si fece autore del libro De tribus impostoribus, Mose, Christo et Mahumed, stampato trent'anni prima ch'ei nascesse. Fu detto che voleva fondar la repubblica con l'aiuto de' turchi, e che era un eretico, e aveva dottrina pericolosa, e non credeva a Dio. Invano scrisse Della monarchia, e l'Ateismo vinto, e la Disputa antiluterana. Fu condannato da Roma e da Spagna, ribelle ed eretico, e tenuto in prigione ventisette anni, sottoposto alla tortura sette volte.
Dopo dodici anni di tali martìri fa questo triste inventario de' suoi mali:
Fra tanti tormenti scriveva, scriveva sempre, versi e prose. I tempi si facevano più scuri. Copernico era uomo piissimo, chiuso ne' suoi studi matematici; era un matematico, non un filosofo, dicea Bruno, che di quel sistema avea saputo fare un così terribile uso col suo ingegno libero e speculativo. Il sistema era presentato come una pura ipotesi e spiegazione de' fenomeni celesti e naturali, e i filosofi avevano sempre cura di aggiungere: «salva la fede». Così il libro di Copernico, dedicato a Paolo terzo, fu tenuto innocuo per ottanta anni. Ma la sua dottrina si diffondeva celeremente, propugnata da Bruno, da Campanella, da Galileo e da Cartesio, che si preparava a farne una dimostrazione matematica. Il libro di Copernico parve allora cosa eretica, e fu condannato, essendo cosa più facile scomunicare che confutare. Cartesio pose a dormire la sua dimostrazione. Il povero Galileo, processato e torturato, dovette confessare che «Terra stat et in aeternum stabit», ancorchè la sua coscienza rispondesse: - Eppur si muove. - E la sua scrittura sulla mobilità della terra mandò al Granduca con queste parole, ritratto de' tempi:
Altrove la chiama una «chimera», un «capriccio matematico», e nasconde la verità, come fosse un delitto o una vergogna. Di quest'accusa e di questo processo giunse notizia a Tommaso Campanella, e fra' tormenti del carcere scrisse l'apologia di Galileo. Galileo fu lasciato vivere solitario in Arcetri, già rifugio del Guicciardini, dove i dispiaceri e le malattie prima gli tolsero la vista e poi la vita. Morì nel 1642, l'anno stesso che nacque Newton. L'anno dopo Torricelli, suo allievo, trovava il barometro. Tre anni prima moriva Campanella in Francia dov'erasi rifuggito, e dove potè pubblicare la sua filosofia. A Galileo chiusero gli occhi i discepoli. Le sue scoperte ed osservazioni diedero un impulso straordinario alle scienze, e formarono attorno a lui una scuola di filosofi naturali, Castelli, Cavalieri, Torricelli, Borelli, Viviani, illustri non solo per valore scientifico, ma per bontà di scrivere. Veniva il mondo, di cui erano stati precursori incompresi e perseguitati Alberto Magno e Ruggiero Bacone: Galileo ripigliava la bandiera con miglior fortuna. E l'Italia, maestra di Europa nelle lettere e nelle arti, aveva ancora il primato nelle scienze positive, o, come dicevasi, nella «filosofia naturale». Qui venivano ad imparare gli stranieri; qui Copernico imparava il moto della terra, e qui imparava Harvey la circolazione del sangue. Qui sorgeva l'accademia del Cimento, dove «provando e riprovando» si studiava la natura. Geografia, astronomia, anatomia, medicina, botanica, ottica, meccanica, geometria, algebra ebbero qui i loro primi cultori e propagatori. Tra gli scrittori giova mentovare Francesco Redi, in cui fa la sua ultima comparsa il toscano, già finito e chiuso in sè, e Lorenzo Magalotti, di una limpidezza già vicina alla forma moderna. Altro fu il fato del Campanella. Come Bruno, è un naturalista, e crede che la filosofia non si possa fondare che su' fatti. Onde Galileo tirava questa conseguenza, che dunque bisognava prima studiare i fatti. In tanta scarsezza di fatti naturali, morali, sociali ed economici, in tante lacune delle scienze positive filosofare significava foggiarsi un mondo a modo degli antichi filosofi greci, con l'immaginazione divinatrice, ed avere per risultato l'ipotetico e il probabile, anzi che il certo e il vero. Questo, pensava Galileo, non è scienza. Pure è chiaro che una certa idea del mondo l'avevano anche i filosofi naturali, e che quel medesimo porre le fondamenta della scienza sull'osservazione, e tagliarne fuori le credenze e le fantasie, era già mettere in vista un mondo metafisico tutto nuovo, il naturalismo, la natura fatta centro di gravità dello scibile a spese del Dio astratto, o, per parlare secondo quei tempi, Dio fatto visibile e conoscibile nella natura, un Dio intimo e vivo. Questo era il significato stesso di quel movimento che tirava gli spiriti dalle astrazioni scolastiche alla investigazione de' fatti naturali; e Bruno e Campanella non fecero che dare a quel movimento la sua coscienza metafisica e fondarvi sopra tutta una filosofia. Se necessario fu Galileo, non fu meno necessario Bruno e Campanella. Un nuovo mondo si formava, una nuova filosofia era in vista all'orizzonte con lineamenti abbozzati appena e vacillanti. Era quella sintesi poetica e provvisoria, preludio della scienza, il presentimento e la divinazione dell'ultima sintesi, risultato di una lunga analisi, e corona della scienza. Quella prima sintesi te la dànno Bruno e Campanella, appassionatissimi degli antichi filosofi greci, a cui rassomigliavano. È una sintesi inorganica e contraddittoria. E la contraddizione è ancora più accentuata in Campanella che in Bruno. Trovi in lui scienze occulte e scienze positive, soprannaturale e naturale, medio evo e Rinascimento, tradizione e ribellione, assolutismo e libertà, cattolicismo e razionalismo, e mentre combatte, come Bruno, le credenze e le fantasie, nessuno più di lui dommatizza e fantastica. Pongono in opera tutto quel materiale che hanno innanzi, mancando ancora quel lavoro di eliminazione e di analisi, senza il quale è impossibile la composizione. Hanno fede nell'ingegno, e si mettono all'opera con l'ardore di una speciale vocazione, si sentono attirati da una forza fatale verso quelle alte regioni, verso l'infinito o il divino, a rischio di perdervisi. Ciò che ispira a Bruno, o all'anonimo autore, questo sublime sonetto:
Anche Campanella è poeta, e si sente la stessa vocazione. Si chiama «luce tra l'universale ignoranza», «fabbro di un mondo nuovo», «Prometeo che rapisce il fuoco sacro a Giove»:
Campanella avea vivo il sentimento di un mondo nuovo che si andava formando, e ci vedea in fondo, ultimo termine, una rediviva età dell'oro, l'attuazione del divino sulla terra, il regno di Dio, invocato nel «paternostro», quel mondo della pace e della giustizia appresso al quale sospirava Dante e molti nobili intelletti Bruno rimane nelle generalità metafisiche. Campanella abbraccia l'universo nelle sue più varie apparizioni, e ti delinea tutto quel mondo ideale, di cui spera l'effettuazione. Nel suo sistema trovi complicati e combinati senza intima fusione tutti gl'indirizzi percorsi dalla moderna filosofia. Il punto di partenza è la coscienza di sè, «io, che penso, sono», divenuto la base del sistema cartesiano. Questa è la sola cognizione innata, occulta: tutto il resto è cognizione acquisita per mezzo de' sensi. Qui si sviluppa il sensismo di Telesio non solo come metodo, ma come contenuto. Tutte le cose sono animate; il mondo stesso è «animal grande e perfetto». In ciascuna cosa è la divina Trinità, i tre princìpi o «primalità», com'egli dice, potenza, sapienza e amore. Ciascuna cosa che è, può essere: ama il suo essere, e lo ama perchè lo conosce, ne ha una certa notizia. Perciò tutte le cose hanno senso. Lo spirito stesso è carne. L'animale pensa come l'uomo; ha fino la facoltà dell'universale. Ci si vede in germe Locke e tutto il sensismo moderno. Ma ci è una facoltà propria dell'uomo, e negata all'animale, il sentimento religioso. Perciò, quando il corpo è formato, vi entra l'anima, che esce «fanciulla dalle mani di Dio», come dice Dante. L'anima è la facoltà del divino, o, come si direbbe oggi, dell'assoluto. Ella ti dà la contemplazione di Dio. Non è ragione o dialettica questa facoltà dell'assoluto, e nemmeno discorso o processo intellettivo (ciò che entra nella mente o visione di Bruno) ma è intuito, estasi, fede, un ponte fatto alla rivelazione e alla teologia, uno studio di conciliazione tra il medio evo e il mondo moderno. Qui vedi spuntare la moderna filosofia dell'assoluto nel suo doppio indirizzo, razionalista e neocattolico. Tutte le idee e tutti gl'indirizzi, che anche oggi agitano le coscienze, fermentano nel suo cervello. Come Bruno, Campanella non ha il senso del reale e del naturale; e neppure ha il senso psicologico, ancorchè parli spesso di coscienza e di esperienza, e le faccia basi del suo filosofare. Aveva al contrario quella seconda vista propria degli uomini superiori, facoltà da lui non scrutata, non compresa e non disciplinata, ch'egli confonde con l'estasi e col puro intuito, e che lo gitta in braccio alla teologia, al soprannaturale e alle scienze occulte. Cerca una conciliazione tra' due uomini che pugnavano in lui, l'uomo di Telesio e l'uomo di san Tommaso, e vi logora le sue forze, senza riuscire ad altro che a mettere in maggior lume la contraddizione. Perciò il suo metodo rimane scolastico, cumulo di argomenti astratti, e la sua filosofia partendo da Telesio riesce a san Tommaso. Attendendo da Galileo la costruzione del mondo, provvisoriamente crede all'astrologia e alla magia, e oggi gli spiritisti e i magnetisti lo chiamano loro precursore. Nelle applicazioni hai lo stesso uomo. Il mondo è atto della volontà di Dio: atto conforme al disegno o all'idea del mondo preordinato nella sua mente, perciò conforme alla ragione. Dio dunque governa il mondo, e per esso il papa che lo rappresenta in terra, e il cui braccio è l'imperatore. Qui siamo con san Tommaso nel più puro medio evo, ancora più indietro di Dante e di Machiavelli, perchè l'elemento laico è sottoposto all'ecclesiastico. E si concepisce come il nostro filosofo se la prenda fra tutti col Machiavelli, uomo «senz'alcuna specie di scienza e di filosofia, semplice storico o empirico», che voleva fare della religione uno strumento dello Stato. Ma Campanella non si accorge ch'egli è più Machiavelli del Machiavelli, perchè nessuno ha spinto così avanti l'annichilamento dell'individuo e l'onnipotenza dello Stato nella sua doppia forma, ecclesiastica e laica. In quel tempo che la monarchia assoluta si sviluppava nella Spagna e nella Francia col favore e l'appoggio del papato, egli era la voce dell'assolutismo europeo, e ci mettea una sola condizione: che quell'assolutismo fosse il potere esecutivo del papa, il braccio del papato. Hai il vecchio quadro del medio evo, con tinte ancora più decise. Egli dice a Filippo: - I re sieno tuoi sudditi, e la terra sia tua, a patto che tu sii veramente «il cattolico», primo suddito della Chiesa. - Questa è la carta di alleanza fra il trono e l'altare. L'Italia ha perduto l'imperio del mondo, nè ci si può più pensare, perchè il passato non torna più; ma l'Italia si consolerà, perchè ha nel suo seno il papato, e per esso dominerà ancora il mondo. Che cosa è l'individuo in questo sistema? Nulla. Egli ha doveri, non ha dritti. Non ha il dritto di scegliersi la sua donna, di crearsi la sua proprietà, di educare ed istruire la sua prole, di mangiare, di dormire, di vivere a suo gusto, di esaminare, discutere, accettare o rigettare: non può dire: - Questo è mio -; e non può dire: - No. - Il dritto è nella società, e per essa nel papa e nell'imperatore. Hai per risultato il comunismo, l'assolutismo della società e l'ubbidienza passiva dell'individuo. Il comunismo è in fondo a tutte queste teorie di monarchia universale e assoluta, di dritto divino, e Campanella va sino in fondo. Il che sempre avviene quando l'unità è posta fuori dell'umanità in una volontà a lei estrinseca, e quando l'unità rimane astratta, e tiene non in sè, ma dirimpetto a sè il vario e il molteplice. In questa unità va a naufragare ogni particolare, l'individuo, la famiglia, la nazione. Or questa è la filosofia sua, questa è la sua «città del sole», la sua rediviva età dell'oro. Il quadro è vecchio, ma lo spirito è nuovo. Perchè Campanella è un riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto, perchè la ragione governa il mondo. Dio è il Senno eterno; il sovrano dee essere anche lui il sapientissimo di tutti. Non è re chi regge, ma chi più sa. Il vero sovrano è la scienza. E l'obbiettivo della scienza è il progresso e il miglioramento dell'uomo. Si maraviglia come si studi a migliorare la razza cavallina o bovina, e si lasci al caso e al capriccio individuale la razza umana. Egli ha fede nel miglioramento non solo morale, ma fisico dell'uomo, per mezzo della scienza, applicata da un governo intelligente e paterno. E suggerisce provvedimenti sociali, politici, etici, economici, che sono un primo schizzo di scienza sociale nelle sue varie diramazioni ancora confuse, guidato da una rettitudine e buon senso naturale, con uno sguardo delle cose non nella loro degenerazione, «come fecero Aristotile e Machiavelli», ma nella loro origine e purezza natia, «come fecero Platone e gli stoici». E balzan fuori idee, utopie, ipotesi, speranze, aforismi, che sono in parte veri presentimenti e divinazioni del mondo nuovo. Con tante novità in capo, la società in mezzo a cui si trovava non gli dovea parere una bella cosa. Accetta le istituzioni, ma a patto che le si trasformino e diventino istrumento di rigenerazione. Vuole un papato ed un monarcato progressista; ed è chiaro che a Filippo di Spagna poco garbasse trar di prigione un così pericoloso alleato, un nuovo marchese di Posa. Accanto alla sua ricostruzione ci è dunque un elemento negativo, una critica della società, com'era costituita. Il suo punto di mira sono sofisti, ipocriti e tiranni, come contraffattori e falsificatori delle tre primalità, sapienza, amore e potenza, «di tre dive eminenze falsatori»:
Dal qual concetto nasce un magnifico sonetto sulla storia del mondo, foggiata dall'amor proprio:
Se tutt'i mali sono frutto dell'ignoranza, si comprende il suo entusiasmo per la scienza e per la sua missione. Il savio è invitto, perchè vince, anche se tu l'uccidi:
I guai più spandono suo nome e gloria, e ucciso è adorato per santo; nè è sventura eh'ei sia nato di vil progenie e patria, perchè illustra egli le sue sorti. Più è calpesto, e più s'innalza:
La sua vita è antica quanto il mondo:
Il mondo è un teatro, dove le anime mascherate de' corpi
In questa commedia universale l'uomo spesso segue più il caso che la ragione:
Principi veri sono i savi:
E se non fossero i savi, che sarebbe il mondo?
La vera nobiltà nasce non dal sangue e non dalla ricchezza:
Il savio è re, è nobile; il savio è libero. La plebe è serva per la sua ignoranza:
Quest'apoteosi della scienza è congiunta con un vivo sentimento del divino, anzi la scienza non è che il divino, il senno eterno, che comunica alla natura i suoi attributi o primalità, la potenza, la sapienza e la bontà, della quale segno esteriore è la bellezza. Tale era la natura nell'età dell'oro, e tale ritornerà:
Base dell'età dell'oro è la fratellanza e uguaglianza umana, l'amor comune sostituito all'amor proprio:
È ciò che direbbesi oggi «democrazia cristiana», un ritorno alla Chiesa primitiva di Lino e di Callisto, a' puri tempi evangelici, vagheggiati da Dante e da Campanella, quando si mangiava in carità, e non ci era ricco nè povero, non mio e tuo. Avvezzo a guardare le cose nella loro origine e non nella loro degenerazione, il sogno di Campanella è che il mondo «nel suo giro torni là ov'ebbe radice». Il progresso è la ristaurazione del buon tempo antico. Bruno spregia l'età dell'oro, stato d'innocenza, alla quale contrappone la virtù. Innocenza è ignoranza, virtù è sapienza. Ed è sapienza non infusa e comunicata dal di fuori, ma prodotto della libera attività individuale. In questo sistema la libertà è sostanziale; l'ideale è il progresso per mezzo della libertà. In questi due grandi italiani spuntano già le due vie dello spirito moderno, vedi il razionalista e il neocattolico. L'uno volge le spalle al passato, l'altro cerca di trasformarlo e farsene leva per il progresso Attendendo l'età dell'oro, Campanella vede il mondo nella sua degenerazione, grazie a' tiranni, a' sofisti e agl'ipocriti. Tra' sofisti pone i poeti, seminatori di menzogne:
Altrove li rampogna che, in luogo di cantare Colombo e gli alti fatti moderni, stieno impaludati nelle favole antiche. Nè gli è caro che sciupino l'ingegno in argomenti futili. Bellezza è segno del bene: bella ogni cosa è dove serve e quando, e brutta dov'è inutile, o mal serve, e più s'annoia:
Ci s'intravvede la nuova critica, che richiama gli spiriti dalle forme alle sostanze, dalle parole alle cose, dal di fuori al di dentro. Di che esempio è lui stesso, che scrive cose nuove e alte nel più assoluto disprezzo della forma. La sua poesia nervosa, rilevata, succosa, e insieme rozza e aspra, è l'antitesi di quella letteratura vuota, sofistica, e leziosa, venuta su col Marino. Campanella scrisse infiniti volumi, e de omnibus rebus. Nessuna parte dello scibile gli è ignota, scienze occulte e naturali, teologia, metafisica, astronomia, fisica, fisiologia. È un primo schizzo di enciclopedia, un primo albero della scienza. Dovunque fissa lo sguardo, vede o intravede cose nuove. Notabile è soprattutto l'interesse che prende per l'educazione e il benessere del popolo. La scienza fino allora è stata aristocratica, religiosa e politica, rimasta nelle alte cime, più intenta al meccanismo sociale che al miglioramento dell'uomo. In lui si vede accentuata questa tendenza, che i mutamenti politici sono vani, se non hanno per base l'istruzione e la felicità delle classi più numerose. A questo scopo si riferiscono i suoi più bei concetti: la riforma delle imposte, sì che non gravassero principalmente sugli artigiani e i villani, toccando appena i cittadini o borghesi, e niente i nobili; l'imposta sul lusso e su' piaceri; i ricoveri per gli invalidi; gli asili per le figliuole de' soldati; i prestiti gratuiti a' poveri sopra pegni, le banche popolari, gli impieghi accessibili a tutti, un codice uniforme, l'uniformità delle monete, l'incoraggiamento delle industrie nazionali, «più proficue che le miniere». Lasciare le discussioni astratte, le sottigliezze teologiche, malattia del tempo, e volgersi alla storia, alla geografia, allo studio del reale per migliorare le condizioni sociali, questa è l'ultima parola di Campanella. La prima opera del filosofo, egli dice, è comporre la storia de' fatti. Ci è già la nuova società che si andava formando sulle rovine del regime feudale. Ci è tutto un rinnovamento sociale, accompagnato, quanto a' suoi procedimenti, da questo motto profondo: che i moti umani durevoli «son fatti prima dalla lingua e poi dalla spada»; o, in altri termini, che la forza non può fondare niente di durevole, quando non sia preceduta e accompagnata dal pensiero. Ugual soffio spirava da Venezia. Centro già di lettere e di coltura con Pietro Bembo, ora diveniva il centro italiano del libero pensiero. Celebre era la scuola materialista di Padova. La stessa indipendenza si sviluppava in materia politica. Di là all'Italia serva giungevano i liberi accenti di Paolo Paruta. Dal Machiavelli in poi pullulavano scritti politici sotto i nomi di Tesoro politico, Principe regnante, Segretario, Chiave del gabinetto, Ambasciatore, Ragion di Stato, guazzabuglio di luoghi comuni e di erudizione indigesta. I fatti più tristi vi sono giustificati, la notte di san Bartolomeo e le stragi del duca d'Alba. Il che non toglie che tutti non se la prendano col Machiavelli, accusandolo e insieme rubandogli i concetti. Fra gli altri è degno di nota il Botero nella sua Ragion di Stato, dove combatte il Machiavelli, e segue i suoi precetti, applicandoli contro i novatori e gli eretici. Quel libro è il codice de' conservatori. A lui sembra che tutto sta benissimo come sta, e che non rimane che a prender guardia contro le novità: «bonum est sic esse». Nacque nel 1540, lo stesso anno che nasceva Paolo Paruta, il più vicino di spirito e di senno a Nicolò Machiavelli. Mentre l'Italia sonnacchiava tra l'assolutismo papale e spagnuolo, e si fondavano in Europa le monarchie assolute, lo storico veneto scriveva che «tolta la libertà, ogni altro bene è per nulla, anzi la stessa virtù si rimane oziosa e di poco pregio»; che il vero monarca è la legge; e che «chi commette il governo della città alla legge, lo raccomanda ad un Dio; chi lo dà in mano all'uomo, lo lascia in potere di una fiera bestia». «Nascere e vivere in città libera», è per lui l'ideale della felicità. Ne' suoi Discorsi politici trovi il successore di Machiavelli e il precursore di Montesquieu, il senso pratico veneziano e l'acume fiorentino. Il sentimento politico era in lui contrastato dal sentimento religioso. Il dispotismo papale e spagnuolo, base della restaurazione cattolica, parevagli minaccioso alla libertà veneziana, e non guardava senza speranza nel moto germanico, dove gli pareva di trovare il contrappeso. La contraddizione era più profonda nella sua intelligenza, dove ragione e fede contendevano senza possibilità di conciliazione. Nel suo Soliloquio s'intravedono quegli strazi interiori, che amareggiarono ancora i primi anni del Tasso. La qual contraddizione non risoluta lo tiene in una certa mezzanità di spirito, e gli toglie quella fisonomia di originalità e di sicurezza, propria degli uomini nuovi. Non altre erano le condizioni morali dello spirito veneto in quel tempo di transizione. Erano buoni cattolici, ma gelosi della loro libertà, avversi alla Curia e soprattutto a' gesuiti, già temuti per la loro abile ingerenza nelle faccende politiche, nè erano disposti a tener vangelo tutte le massime della Chiesa, specialmente in fatto di disciplina. Con queste disposizioni gli animi doveano essere accessibili alle dottrine della Riforma, nè senza speranza i luterani aveano scelto Venezia come loro base di operazione per la diffusione dello scisma in Italia. Sorsero molti opuscoli e trattati in favore e contro; nè le dispute religiose poterono esser frenate dall'Inquisizione, che in città così difficile procedea mite e rispettiva. Alle contensioni religiose si mescolavano contenzioni di giurisdizione tra il governo e il papa, per le quali non dubitò Paolo V di fulminare l'interdetto su tutta la città, che sortì un effetto contrario al suo intento, rese ancora più viva e più tenace la lotta. Il personaggio, intorno a cui si raccoglie tutto questo movimento, è Paolo Sarpi, l'amico di Galileo e di Giambattista Porta, e della stessa scuola. Teologo, filosofo e canonista sommo, non era meno versato nelle discipline naturali, fisica, astronomia, architettura, geometria, algebra, meccanica, anatomia; a lui si attribuisce la scoperta della circolazione del sangue. Mescolato nella vita attiva, non specula, come Bruno e Campanella, e non inventa, come il Galileo, ma scende nella lotta tutto armato, e mette le sue cognizioni in servigio del suo patriottismo. Sceglie le sue armi con la sagacia dell'uomo politico, anzi che con la passione del filosofo e del riformatore; perchè il suo scopo non è puramente filosofico o scientifico, ma è pratico, indirizzato a raggiungere certi effetti. Mira a interessare nella lotta i principi, come facevano i protestanti, sostenendo la loro indipendenza verso il potere ecclesiastico. Continuando Dante e Machiavelli, nega al papa ogni potestà su' principi, e vuole al contrario ricondurre i chierici sotto il dritto comune, non altrimenti che semplici cittadini. Emancipare lo Stato, secolarizzarlo, assicurargli la sua libertà dirimpetto alla corte di Roma, questo era un terreno comune, dove spesso s'incontravano principi e riformatori. Paolo Sarpi ebbe il buon senso di mantenervisi, con una chiarezza e fermezza di scopo assai rara in scrittore italiano. D'ingegno sveltissimo e di amplissima coltura, non lascia tralucere delle sue idee se non quello solo che può avere un effetto pratico a quel tempo e in quella società, usando una moderazione di concetti e di forme più terribile che non l'aperta violenza. Taglia nel vivo con un'aria d'ingenuità e di semplicità, come chi ti faccia una carezza. Cinque volte si tentò di ammazzarlo; e all'ultima, colpito dal ferro assassino, esclamò: - Conosco lo stile della romana curia. - La sua Storia del Concilio di Trento è il lavoro più serio che siasi allora fatto in Italia. Quel concilio era la base della restaurazione cattolica, o piuttosto reazione, e delle pretese della corte romana. Vi fu consacrato il potere assoluto del papa e la sua supremazia sul potere laicale. Ivi aveano radice i diritti giurisdizionali, che curia e gesuiti cercavano di far valere negli Stati, concitando contro di sè non solo i protestanti, ma i principi cattolici. Era il medio evo rammodernato nella superficie, di apparenze più corrette e meno rozze. Scrivere la storia di quel concilio, e dimostrare la sua mondanità, cioè a dire i fini, le passioni e gl'interessi mondani, che resero possibili quei decreti, e prevalenti le opinioni estreme e violente, era un attaccare il male nella sua base. A questa impresa si accinse il Sarpi. E se la passione politica fosse in lui soprabbondata, tirandolo a violenza d'idee e di espressioni, e a volontarie alterazioni e mutilazioni di fatti, il suo scopo sarebbe mancato. La sua forza è nella sua moderazione e nella sua sincerità. Nè questo egli fa solo per sagacia di uomo politico, ma per naturale probità e per serietà di storico e letterato. La storia nelle sue mani non è solo un istrumento politico: è un sacro ufficio, che egli non sa prostituire alle passioni contemporanee, e al quale si prepara con ogni maniera di studi e d'investigazioni. E qui è l'interesse di questo libro. Ha voluto scrivere una storia imparziale con sincerità e gravità di storico, e riesce parzialissimo, perchè l'uomo con le sue passioni, con le sue simpatie e antipatie, co' suoi fini politici, con le sue opinioni traspare da ogni parte e si fa valere. La parzialità non è volontaria, e non è nella materialità de' fatti, ma è nello spirito nuovo che vi penetra, non solo nella sua generalità dottrinale, ma nelle sue più concrete determinazioni politiche ed etiche. Non ci è autorità che tenga; Sarpi studia tutto, sente tutti; ma decide lui. L'autorità legittima è nella sua ragione. Il suo ideale è la Chiesa primitiva e evangelica, sgombra di ogni temporalità, e non di altro sollecita che d'interessi spirituali. Condanna soprattutto la gerarchia, «nata di ambizione papale e d'ignoranza de' principi». Nè per questo fra Paolo si crede men cattolico del papa, anzi è lui che vuole una vera restaurazione cattolica, riconducendo la religione nella prisca sincerità e bontà, e rendendo possibile quella conciliazione fra tutte le confessioni, che dovea essere procurata, e fu impedita dal Concilio. Perciò chiama il Concilio l'«Iliade del secolo» per i mali effetti che ne uscirono, e la sua opera giudica non una riforma, ma una «difformazione». Qual era la riforma da lui desiderata, traspare da' concetti che attribuisce a quel buon papa di Adriano sesto, «uomo germano, e pertanto sincero, che non trattava con arti e per fini occulti», il quale confessava il male esser nato dagli abusi e dalle usurpazioni della monarchia romana, e prometteva piena riforma, «quando anche avesse dovuto ridursi senza alcun dominio temporale, e anco alla vita apostolica». Grande è in questo libro l'armonia tra il contenuto e la forma. Il concetto fondamentale del contenuto è questo, che come la verità è nella sostanza delle cose, non nei loro accidenti e apparenze, così la religione ha la sua essenza nella bontà delle opere, e non nella osservanza delle forme o nelle concessioni e grazie pontificie, e parimente non è la diligente narrazione de' peccati, ma il proposito di mutar vita, che assicura efficacia alla confessione. Questo è lo stesso concetto dello spirito nuovo, che, già adulto, dalla moltiplicità delle forme e degli accidenti saliva all'unità e alla sostanza delle cose. È lo spirito che animava Machiavelli, Bruno, Campanella e Galileo e Sarpi, e che in questa Storia penetra anche nella forma letteraria. Perchè qui la forma non è niente per sè, e non è altro che la cosa stessa, liberata da ogni elemento fantastico e rettorico, è il positivo e il reale, proprio l'opposto della letteratura in voga. Il Pallavicino, che per commissione della Curia scrisse una storia del Concilio in confutazione di questa, dice: «Il fuoco delle ribellioni non si smorza se non o col gielo del terrore o con la pioggia del sangue». Dice cosa gravissima con lo spirito distratto dalla forma, cercando metafore. Qui la forma non è espressione, ma ostacolo; nè da questi lisci può venire la grave impressione che pur dee fare sullo spirito un pensiero così feroce, base dell'Inquisizione. Sarpi fa dire il medesimo a papa Adriano; nella forma vi penetra una energia e una precisione di colorito, che ti rende la cosa nella sua crudeltà e insieme nella sua ragionevolezza. Ci è la cosa come sentimento e come idea.
Si vede nel Pallavicino la vanità della forma nella indifferenza del contenuto; si vede nel Sarpi l'importanza del contenuto nella indifferenza della forma, una forma che è il contenuto stesso nel suo significato e nella sua impressione. Trovi in lui una elevatezza d'ingegno, che gli fa spregiare i lenocini e gli artifizi letterari, una viva preoccupazione delle cose, una chiarezza intellettiva accompagnata con un vigore straordinario d'analisi, e quel senso della misura e del reale che lo tien sempre nel vivo e nel vero. Aggiungi l'assoluta padronanza della materia, la conoscenza de' più intimi secreti del cuore umano, la chiara intuizione del suo secolo e della società in mezzo a cui viveva ne' suoi umori, nelle sue tendenze e ne' suoi interessi, e si può comprendere come sia venuta fuori una prosa così seria e così positiva. L'attenzione volta al di dentro, e non curante della superficie, ti forma un'ossatura solida, una viva logica, maravigliosa per precisione e rilievo, ma scabra e ruvida. Manca a questa prosa quell'ultima finitezza, che viene dalla grazia, dalla eleganza, dalle qualità musicali. È il difetto della sua qualità più spiccato in lui, non toscano e con l'orecchio educato più alla gravità latina che alla sveltezza del dialetto natio. Machiavelli, Bruno, Campanella, Galileo, Sarpi non erano esseri solitari. Erano il risultato de' tempi nuovi, gli astri maggiori, intorno a cui si movevano schiere di uomini liberi, animati dallo stesso spirito. Cosa volevano? Cercare l'essere dietro il parere, come dicea Machiavelli; cercare lo spirito attraverso alle forme, come dicea la Riforma; cercare il reale e il positivo, e non ne' libri, ma nello studio diretto delle cose, come dicea Galileo; o, come diceano Bruno e Campanella, cercare l'uno attraverso il molteplice, cercare il divino nella natura. Sono formole diverse di uno stesso concetto. Riformati e filosofi nelle loro tendenze s'incontravano su di un terreno comune. Camminavano con disugual passo; molti erano innanzi troppo; altri restavano a mezza via; ma per tutti la via era quella. Volevano squarciar le forme addensate dalla superstizione e dalla fantasia e fatte venerabili, e guardare le cose svelate nella loro sostanza o realtà, guardarle col proprio sguardo, col lume naturale. La lotta contro Aristotile e gli scolastici, contro le forme e le dottrine ecclesiastiche, contro le «intrusioni umane» nella Chiesa, contro i simboli, le fantasie, i dogmi, il soprannaturale, era il lato negativo di questo movimento. Lato positivo era il reale, come metodo e come contenuto: l'uomo e la natura studiati direttamente dall'intelletto, prendendo per base l'esperienza e l'osservazione. Paolo Sarpi trasportava la lotta dalle generalità filosofiche in mezzo agl'interessi, dove potea aver favorevoli i principi e i popoli: perciò fu più temuto, ed ebbe più influenza. Se la ristaurazione cattolica fosse stata vera e ragionevole restaurazione, cioè a dire conciliazione, come volea il Sarpi, e come fantasticava il Campanella, si sarebbe assimilato il nuovo in ciò che era pratico e compatibile. Ma la storia non si fa co' «se», nè col senno di poi. Il movimento era ancora nella sua forma istintiva, nel suo stato violento e contraddittorio. D'altra parte la Chiesa più che da sentimenti e convinzioni religiose era mossa da interessi mondani e da passioni politiche. Perciò la restaurazione si chiarì un'aperta reazione. Nessuno di queste condizioni morbose ha avuto una intelligenza più chiara che Paolo Sarpi. Ecco alcuni brani delle sue pitture:
Così parlava il cardinale Pucci, per dissuadere Adriano sesto, che voleva a forza di pene canoniche sradicare le idee nuove, e ricondurre
Del qual parere era anche il cardinale fra Tommaso da Gaeta, a cui il Sarpi fa dire:
Oltre a questo rimedio delle penitenze, il buono Adriano voleva una seria riforma, quando anche dovesse lasciare il potere temporale. Ma contro gli ragiona il cardinale Soderino in questo modo:
Quel bravo cardinale ammette che ci è del cattivo; ma non bisogna toccarvi, per non dar ragione agli avversari. E all'ultimo riserba il più prezioso, la ragione più efficace:
Adriano conchiuse che farebbe le riforme passo a passo: il qual sistema moderato non piacque a' tedeschi, i quali rispondevano motteggiando che da un passo all'altro sarebbe corso un secolo. Si può immaginare quale impressione dovessero fare su' contemporanei queste rivelazioni di Paolo Sarpi, che metteva in tanta evidenza i motivi mondani e politici della ristaurazione cattolica. La quale, essendo aperta reazione, fondavasi sopra idee e tendenze affatto opposte alle altre. Questi proclamavano l'indipendenza e la forza della ragione, quelli la sua incompetenza e la sua debolezza. Questi celebravano la coltura e la scienza, quelli stavano con la pura fede, co' poveri di spirito e con i semplici di cuore. Gli uni si fondavano sull'esperienza e sull'osservazione; gli altri sulla rivelazione e sull'autorità di Aristotile, degli scolastici, de' santi Padri e de' dottori. Gli uni facevano centro de' loro studi la natura e l'uomo; gli altri sottilizzavano sugli attributi di Dio, sulla predestinazione e sulla grazia. Gli uni volevano togliere alla Chiesa ogni temporalità, e semplicizzare le forme ed il culto; gli altri volevano mantenere inviolate tutte le forme, anche le assurde e le grottesche, e non che rinunziare al temporale, ma volevano dilatare la loro ingerenza e il loro dominio, prendendo a base il potere assoluto del papa e la sua supremazia anche nelle cose temporali. Fin d'allora valse il motto: «Aut sint ut sunt, aut non sint»; o vivere così, o morire. Questa reazione così cieca sarebbe durata poco, se non fosse stata sorretta dalla tenace abilità de' gesuiti, la milizia del papa. I quali, doma l'aperta ribellione co' terrori dell'Inquisizione, vollero guadagnare alla restaurazione anche le volontà e le coscienze, mostrando in questo assunto una conoscenza degli uomini e del secolo e un'arte di governo, che li resero degni continuatori della politica medicea. Persuasi che governa il mondo chi più sa, coltivarono gli studi e si sforzarono di mantenere il primato del clero nella coltura. Non potendo estirpare in tutto il nuovo, accettarono la superficie, e vestirono la società a nuovo per meglio conservare il vecchio. Presero dunque aria di uomini colti e liberali, scossero da sè la polvere scolastica, e per meglio vincere il laicato presero ne' modi e ne' tratti apparenze più laicali che fratesche, confidandosi di abbatterlo con le sue armi. Divenuti amici e protettori de' letterati e fautori della coltura, apersero scuole e convitti, e presero nelle loro mani l'istruzione e l'educazione pubblica. Non mancarono i teatrini, le commedie, le accademie, altre imitazioni degli usi laicali. La superficie era la stessa, lo spirito era diverso. Perchè, dove gli uomini nuovi miravano a tirare l'attenzione dal di fuori al di dentro, dagli accidenti e dagli accessorii al sostanziale, dalle forme allo spirito, essi miravano a coltivare la memoria, ad allettare i sensi e l'immaginazione più che l'intelletto, a trattenere l'attenzione sulla superficie, sì che l'intelligenza fra tante cognizioni empiriche rimaneva passiva e vuota: onde usciva una coltura mezzana e superficiale, più simile ad erudizione che a scienza. Al che si accomodava facilmente la tempra fiacca de' più, contenti di quello spolvero, che dava loro un'aria di nuovo, l'aria del secolo e così a buon mercato. I gesuiti vennero in moda, sfogandosi i mali umori del secolo sopra gli altri ordini religiosi, come restii ad ogni novità. Il loro successo fu grande, perchè in luogo di alzare gli uomini alla scienza, abbassarono la scienza agli uomini, lasciando le plebi nell'ignoranza e le altre classi in quella mezza istruzione, che è peggiore dell'ignoranza. Parimente, non potendo alzare gli uomini alla purità del Vangelo, abbassarono il Vangelo alla fiacchezza degli uomini, e costruirono una morale a uso del secolo, piena di scappatoie, di casi, di distinzioni, un compromesso tra la coscienza e il vizio, o, come si disse, una doppia coscienza. E nacque la dottrina del «probabilismo», secondo la quale un «doctor gravis» rende probabile un'opinione, e l'opinione probabile basta alla giustificazione di qualsiasi azione, nè può un confessore ricusarsi di assolvere chi abbia operato secondo un'opinione probabile. Un giudice, dice un dottore, può decidere la causa a favore dell'amico, seguendo un'opinione probabile, ancorchè contraria alla sua coscienza. Un medico, dice un altro dottore, può con lo stesso criterio dare una medicina, ancorchè egli opini che farà danno. Richiedono sola cautela che non ci sia scandalo, e non già perchè la cosa sia in sè cattiva, ma per il pregiudizio che ne può venire. Questa morale rilassata era favorita da un'altra teoria, «directio intentionis», formulata a questo modo, che un'azione cattiva sia lecita quando il fine sia lecito. È la massima che il fine giustifica i mezzi, applicata non solo alle azioni politiche, ma alla vita privata. Non è peccato annegare in un fiume un fanciullo eretico, per battezzarlo. Uccidi il corpo, ma salvi l'anima. Non è peccato uccidere la donna, che ti ha venduto l'onore, quando puoi temere che svelando il fatto noccia alla tua riputazione. E all'ultimo viene la dottrina «reservatio et restrictio mentalis». Il giuramento non ti lega, se tu usi parole a doppio senso, rimanendo a te l'interpretazione, o se aggiungi a bassa voce qualche parola che ne muti il senso. Non è bugia, dice un dottore, usare parole doppie che tu prendi in un senso, ancorchè gli altri le prendano in un senso opposto. E non è bugia dire una cosa falsa, quando nel tuo pensiero intendi altro. Hai ammazzato il padre; pure puoi dire francamente: - Non l'ho ammazzato -, quando dentro di te pensi a un altro che realmente non hai ammazzato, o ci aggiungi qualche riserva mentale, come: - Prima ch'egli nascesse, non l'ammazzai di certo. - Questa scaltrezza, aggiunge il dottore, è di grande utilità, porgendoti modo di nascondere senza bugia quello che hai a nascondere. Vedi quante scappatoie! E ce n'era per tutt'i casi. In quell'arsenale trovi come puoi senza peccato non andare talora a messa, o spendervi poco tempo, o durante la messa conversare, o andando a messa guardare le donne con desidèri amorosi. Se vuoi rimanere in buon concetto presso il tuo confessore, scegli un altro, quando abbi commesso qualche peccato grave. E se ti pesa il dirlo, usa parole doppie, o fa una confessione generale per gittarlo così alla rinfusa nella moltitudine de' peccati vecchi. Ciascuno immagina, con quella facile scienza, con quella più facile morale, che seguito e che favore dovettero avere i gesuiti, maestri, confessori, predicatori, missionari, scrittori, uomini di mondo e di chiesa. Seppero conoscere il secolo, e lo dominarono. E mantennero il dominio con l'energia e la logica della loro volontà. Salirono a tanta potenza che ingelosirono i principi, e posero talora in sospetto anche i papi. Prendendo a base l'ubbidienza passiva, di modo che l'uomo dirimpetto al suo superiore fosse «perinde ac cadaver», stabilirono la monarchia assoluta. Ma volevano che il papa dominasse i principi, e volevano loro dominare il papa. I principi si difendevano, offendendo, e cercando fino un sostegno nelle idee nuove. Così Paolo Sarpi difendeva la libertà di Venezia. La lotta era disuguale, perchè alle armi spirituali era scemata la riputazione, e i principi avevano guadagnata tutta quella forza, ch'era mancata a' feudi ed a' comuni. I gesuiti allora, non trasandando le armi puramente ecclesiastiche, operarono principalmente come un corpo politico, e seppero maneggiare le armi mondane con una tenacità uguale alla destrezza. Presero aria di democratici, e cercarono forza ne' popoli contro i principi. Fin dal 1562 Lainez, il secondo generale de' gesuiti, sosteneva nel Concilio di Trento che la Chiesa ha le sue leggi da Dio, ma la società ha il dritto di scegliersi essa il suo governo. Il cardinale Bellarmino sostiene che il potere politico è da Dio; ma il dritto divino è non ne' singoli uomini, ma nella intera società, non ci essendo nessuna buona ragione che uno o molti debbano comandare agli altri; che monarchia, aristocrazia, repubblica sono forme che derivano dalla natura dell'uomo; e che perciò, quando ci è alcuna legittima ragione, può il popolo mutare la sua forma di governo, come fecero i romani. Ecco già spuntare la «sovranità del popolo», e il «dritto dell'insurrezione». Mariana vuole la monarchia, ma a patto che ubbidisca al consiglio de' migliori cittadini raccolti in senato. Era spagnuolo, e scriveva sotto Filippo terzo, che tenea Campanella nelle prigioni di Napoli. Non ammette il dritto ereditario, «nato dalla troppa possanza de' re e dalla servilità de' popoli», e causa di tanti mali, non ci essendo niente più mostruoso che «commettere le sorti di un popolo a fanciulli ancora in culla e al capriccio di una donna». Re che offende i dritti de' popoli e disprezza la religione è come una bestia feroce, e «ciascuno gli può metter le mani addosso». I dritti di successione non possono esser mutati che col consenso del popolo; perchè «dal popolo viene il dritto della signoria». Il re ha il suo potere dal popolo; perciò «non è signore dello Stato o de' singoli individui, ma un primo magistrato, pagato da' cittadini». Il re non può da solo porre le tasse, fare leggi, scegliersi il successore; perchè «le son cose che interessano non solo il re, ma anche il popolo». Il re è sottoposto alle leggi, e quando le viola, il popolo ha il dritto «di deporlo e punirlo con la morte». Queste erano le risposte che davano a' principi i gesuiti. Ma erano armi a doppio taglio. Perchè si potea loro rispondere che se il dritto di signoria è non ne' singoli individui, ma nella universalità de' cittadini, quel dritto nelle faccende ecclesiastiche è non nel papa, ma nella Chiesa o universalità de' fedeli, e per essa nel concilio, che può perciò deporre e anche punire il papa. Che cosa diveniva allora il loro papa, il vicario di Dio? Essi erano repubblicani dirimpetto allo Stato, ed assolutisti dirimpetto alla Chiesa. E, per dire la verità, si mostravano repubblicani per meglio dominare i principi, ed erano assolutisti per avere tutto il potere nelle loro mani. Nè voglio dir già che i loro scrittori erano di mala fede, anzi moltissimi erano sinceri, credenti e patrioti, primo fra tutti Mariana. Parlo de' capi, più uomini politici che uomini di fede. Dicono che corruppero e infiacchirono i popoli. Il che è così poco giusto, come dire che Marino corruppe il gusto. Furono effetto e causa. Furono il cattolicismo rammodernato, accomodato possibilmente a' nuovi tempi per meglio conservarlo nella sua sostanza; furono l'intelletto che succede alla fede e all'immaginazione, e si affida più nell'arte del governo che nelle passioni e nella violenza, l'intelletto spinto sino alla sua ultima depravazione, sofistico e seicentistico; nacquero da quello stesso spirito che portò sulla scena del mondo Machiavelli. Perciò furono un progresso, un naturale portato della storia. La loro responsabilità è questa, che, trovando nel secolo fiacchezza e ignoranza, non lavorarono a combatterla per migliorare l'uomo, anzi la favorirono e se ne fecero piedistallo. Torto di tutte le reazioni. Vollero una coltura con licenza de' superiori, e stretta in pochi. E quando la coltura, rotte le dighe, si diffuse, finì il loro regno. La diffusione della coltura era visibile in Italia. E non parlo solo delle scienze esatte e naturali, dove i gesuiti si mostrarono valentissimi, seguendo anche loro la via aperta da Galileo, ma pur delle scienze storiche e sociali. L'abbondanza dell'oro per la scoperta dell'America e la crisi monetaria die' occasione a' primi scritti di economia, il Discorso sopra le monete e la vera proporzione fra l'oro e l'argento di Gaspare Scaruffi, che propugnava, come Campanella, l'uniformità monetaria; e il trattato sulle Cause che possono fare abbondare i regni di oro e d'argento di Antonio Serra di Cosenza, scritto alla Vicaria, dove l'autore, come complice di Campanella, era tenuto prigione. Moltiplicarono i trattati di giurisprudenza, massime nella seconda metà del secolo. Alberico Centile nel suo libro De iure belli fa già presentire Grozio, e gli è vicino per forza speculativa Alessandro Turamini, che scrisse De Pandectis. Tra gl'interpreti del dritto romano sono degni di nota l'Alciato, l'Averani, il Farinaccio, il Fabro. Fondatori della storia del dritto furono il «gran» Carlo Sigonio, come lo chiama Vico, e il Panciroli, maestro del Tasso.Pubblicarono lavori non dispregevoli di cronologia l'Allacci, il Riccioli, il Vecchietti. Comparivano storie venete, napolitane, piemontesi, pisane, il Nani, il Garzoni, il Summonte, il Capecelatro, il Tesauro, il Roncioni: cronache più che storie, volgari di sentimento e di stile. In Roma naturalmente si sviluppava l'archeologia. Il Fabretti di Urbino scrivea degli Acquidotti romani e della Colonna traiana, e pubblicava in otto serie quattrocentotrenta iscrizioni dottamente illustrate. Moltiplicavano le compilazioni, le raccolte, come sussidio agli studiosi. Il Zilioli scrisse l' Indice di tutt'i libri di dritto pontificio e cesareo, e il Ziletti in ventotto volumi il trattato Iuris universi . Avevi già annali, giornali, biblioteche, cataloghi, e simili mezzi di diffusione. Vittorio Siri aveva pubblicato il Mercurio politico e le Memorie recondite, l'Avogadro il Mercurio veridico. Il Nazzari cominciò a Roma nel 1668, il Giornale de' letterati, e il Cinelli pubblicava la Biblioteca volante, una specie di storia letteraria. Comparivano gli Annali del Baronio, le Vite de' pàpi e cardinali del Ciacconio, la Storia generale de' concili di monsignor Battaglini, la Storia delle eresie del Bernini, la Napoli sacra di Cesare Caracciolo e la Sicilia sacra del Pirro, liste e notizie di vescovi, la Miscellanea italica erudita del padre Roberti, la Bibliotheca selecta e l'Apparatus sacer del gesuita Possevino, il Mappamondo storico del padre Foresti, continuato da Apostolo Zeno, un primo tentativo di storia universale. Aggiungi relazioni come la Descrizione della Moscovia del Possevino, i viaggi del Carreri napolitano, che nel 1698 compì a piedi il giro del mondo, la Relazione dello Zani bolognese, che fu in Moscovia, le Lettere del Negri da Ravenna, che giunse fino al capo Nord, la descrizione delle Indie del fiorentino Sassetti, che primo die' notizia della lingua sanscrita. Si conoscea meglio il mondo, e meglio i popoli stranieri. Pietro Maffei da Bergamo scrivea in elegante latino delle Indie orientali, il Falletti ferrarese della Lega di Smalcalda, il Bentivoglio in lingua artificiata e falsamente elegante delle Guerre di Fiandra, il Davila con semplicità trascurata delle Guerre civili di Francia, il padre Strada prolissamente delle cose belgiche. A questa coltura empirica e di mera erudizione partecipavano tutti, laici e chierici, uomini nuovi e uomini vecchi, e i gesuiti vi si mostravano operosissimi: si pensava poco, ma s'imparava molto e da molti. La coltura guadagnava di estensione, ma perdeva di profondità. Chi avesse allora guardata l'Italia con occhio plebeo, potea dirla una terra felice. Rivoluzione e guerra aveano abbandonato le sue contrade: piena pace, tranquilli gli spiriti, in riposo il cervello. Le piccole cose vi erano avvenimenti: l'Inghilterra aveva Cromwell, ella avea Masaniello. L'Europa camminava senza di lei e fuori di lei, tra guerre e rivoluzioni nelle quali si elaborava e si accelerava la nuova civiltà. Lei giaceva beata in quel dolce ozio idillico, che era il sospiro e la musa de' suoi poeti. Dalle guerre di Alemagna usciva la libertà di coscienza, dalle rivoluzioni inglesi usciva la libertà politica, dalle guerre civili di Francia usciva la potente unità francese e il secolo d'oro, la monarchia di Carlo quinto e di Filippo secondo si andava ad infrangere contro la piccola nazionalità olandese. L'Italia assisteva a questi grandi avvenimenti senza comprenderli. Davila e Bentivoglio ci pescavano intrighi e fattarelli curiosi, la parte teatrale. E sì che tra quegli avvenimenti ci erano pure grandi attori italiani, Caterina de' Medici, Mazzarino, Eugenio di Savoia, Montecuccoli, il cui trattato della guerra è una delle opere più serie scritte a quel tempo. Si combatteva non solo con la spada, ma con la penna: le quistioni più astratte interessavano ed infiammavano le moltitudini; dall'attrito scintillavano nuovi problemi e nuove soluzioni; era una generale fermentazione d'idee e di cose. Ciò che fermentava nel cervello solitario di Bruno e di Campanella, fluttuante, contraddittorio, lì era pensiero, stimolato dalla passione, affinato dalla lotta, pronto all'applicazione, in un gran teatro, fra tanta eco, con una chiarezza e precisione di contorni, come fosse già cosa. Questa chiarezza è già intera in Bacone e in Cartesio, dove il mondo moderno si scioglie da tutti gli elementi scolastici e mistici, da tutti i preconcetti, e si afferma in forme nette e recise. Perciò Galileo, Bacone, Cartesio sono i veri padri del mondo moderno, la coscienza della nuova scienza. Il metodo, che Galileo applicava alle scienze naturali, diviene nelle mani di Bacone il metodo universale e assoluto, la via della verità in tutte le sue applicazioni: l'induzione caccia via il sillogismo, e l'esperienza mette in fuga il soprannaturale. Cartesio col suo «de omnibus dubitandum» riassume il lato negativo del nuovo movimento, togliendo ogni valore all'autorità e alla tradizione - e col suo «cogito, ergo sum» pone la prima pietra alla costruzione dell'edificio, inizia l'affermazione. Come la Riforma, così Cartesio pone a fondamento della coscienza il senso individuale; e come Galileo stabilisce il mondo naturale su' fatti, così egli stabilisce il mondo metafisico su di un fatto, «io penso». All'esperienza esterna si aggiunge l'esperienza interna, l'analisi psicologica. L'ente, ch'era il primo filosofico, qui è un prodotto della coscienza, un «ergo». L'evidenza innanzi a' sensi e innanzi alla coscienza, il senso interno, è il criterio della verità. Cartesio, che era un matematico, introduce nella filosofia la forma geometrica, credendo che in virtù della forma entrasse nel mondo metafisico quella evidenza ch'era nel mondo matematico. Era un'illusione, il cui benefizio fu di cacciar via definitivamente le forme scolastiche e aprire la strada a quella forma naturale di discorso, di cui Machiavelli avea dato esempio, ed egli medesimo nel suo ammirabile Metodo. Queste idee non erano nuove in Italia, anzi erano volgari a tutti gli uomini nuovi; ma, naufragate in vaste sintesi immature e senza eco, rimanevano sterili. Qui le vedi a posto, staccate, rilevate, formulate con chiarezza ed energia, e parvero una rivelazione. D'altra parte Cartesio ebbe cura di non rompere con la fede, e di accentuare la natura spirituale dell'anima e la sua distinzione dal corpo, base della dottrina cristiana, sì che dicea parergli meno sicura l'esistenza del corpo che quella dello spirito; oltre a ciò, con le sue idee innate lasciava aperto un varco alla teologia e al soprannaturale. Così egli ti dava la prima filosofia nuova che sembrasse conciliabile con la religione, in un tempo che per l'infanzia della critica e della coscienza non era facile pesare tutte le sue conseguenze. Perciò, come la Riforma religiosa, la sua riforma filosofica ebbe un gran successo; perchè le riforme efficaci son quelle che prendono una forma meno lontana dal passato e dallo stato reale degli spiriti. Aggiungi la sua superficialità, l'estrema chiarezza, la forma accessibile, quel presentar poche idee e nette innanzi alle moltitudini: si rivelava già lo spirito francese volgarizzatore e popolare. La conseguenza naturale della riforma era questa, che l'uomo rientrava in grembo della natura, diveniva una parte della storia naturale. Posto che la filosofia ha la sua base nella coscienza, lo studio della coscienza o de' fatti psicologici diveniva la condizione preliminare di ogni metafisica, come lo studio della natura diveniva l'antecedente di ogni cosmologia. Il mondo usciva dalle astrazioni degli universali ed entrava in uno studio serio dell'uomo e della natura, nello studio del reale. Per questa via modesta e concludente si era messo Galileo; di là uscivano i grandi progressi delle scienze positive. Cartesio applicava alla metafisica gli stessi procedimenti della filosofia naturale, togliendola di mezzo al soprannaturale, al fantastico, all'ipotetico, e dandole una base sicura nell'esperienza e nell'osservazione. Ma i fatti psicologici erano ancora troppo scarsi e superficiali, perchè ne potesse uscire una soluzione de' problemi metafisici, e l'Europa era ancora troppo giovane, troppo impregnata di teologia e di metafisica, di misteri e di forze occulte, perchè potesse aver la pazienza di studiare i dati de' problemi prima di accingersi a risolverli. Le «idee innate» e i «vortici» di Cartesio, la «visione di Dio» di Malebranche, la «sostanza unica» di Spinosa, l'«armonia prestabilita» di Leibnizio erano teodicee ipotetiche e provvisorie, che appagavano il pensiero moderno abbandonato a se stesso, e attestavano il suo vigore speculativo. Ma l'impulso era dato, e fra quelle immaginazioni progrediva la storia naturale dell'intelletto umano, la scienza dell'uomo. Le meditazioni di Cartesio, i maravigliosi capitoli di Malebranche sull'immaginazione e sulle passioni, i Pensieri di Pascal, dove l'uomo in presenza di se stesso si sente ancora un enigma, preludevano al Saggio sull'intelletto umano di Giovanni Locke, l'erede di Bacone, di una grandezza eguale alla sua modestia. Ivi la riforma cartesiana aveva la sua ultima espressione, il suo punto di fermata; ivi la filosofia trovava il suo Galileo, realizzava l'ideale del suo risorgimento, al quale fra molti ostacoli tendevano gli uomini nuovi, acquistava la sua base positiva, fondata sull'esperienza e sull'osservazione, sulla «cosa effettuale», come dicea Machiavelli, e col «lume naturale», come dicea Bruno, con la scorta dell'occhio del corpo e della mente, come dicea Galileo, e leggendo nel libro della natura, come dicea Campanella. Cadevano insieme forme scolastiche e forme geometriche; la filosofia usciva dal suo tempo eroico ed entrava nella sua età umana; agli oracoli dottrinali succedevano forme popolari, e vi si affinavano le moderne lingue. La semplicità, la chiarezza, l'ordine, la naturalezza divenivano le qualità essenziali della forma, e n'era un primo e stupendo esempio il Saggio di Locke. Così la filosofia nella sua linea divergente dalla teologia giungeva sino all'opposto, dal soprannaturale e dal soprasensibile giungeva al puro naturale ed al puro sensibile, giungeva al motto: «Niente è nell'intelletto che non sia stato prima nel senso». E non era già un concetto astratto e solitario, era lo spirito nuovo, penetrato in tutto lo scibile, e che ora, come ultimo risultato, faceva la sua apparizione in filosofia. Anche la morale si emancipava dal precetto divino o ecclesiastico, e cercava la sua base nella natura dell'uomo, e non dell'uomo quale l'avea formato la società, ma nell'integrità e verginità del suo essere. Comparve un dritto naturale, come era comparsa una filosofia naturale; ed entrano in iscena Grozio, Hobbes, Puffendorfio. A quel modo che Campanella e Sarpi con tutti i riformati vagheggiavano la Chiesa primitiva nella purità delle sue istituzioni, e in nome di quella attaccavano come alterazione e falsificazione l'opera posteriore de' papi, i filosofi vagheggiavano l'uomo primitivo, nello stato di natura, e combattevano tutte le istituzioni sociali, che non erano di accordo con quello. Il movimento religioso diveniva anche politico e sociale; l'idea era una, che si sentiva ora abbastanza forte per dilatare le sue conseguenze anche negli ordini politici. Sorge uno spirito di critica e d'investigazione, che non tien conto di nessun'autorità e tradizione, e fa valere il suo scetticismo in tutti i fatti e i princìpi tenuti fino a quel punto indiscutibili, come un assioma. Bayle è là, con la sua ironia, col suo dubbio universale. Come Locke realizzava il «cogito», egli realizzava il «de omnibus dubitandum». E chi paragoni il suo Dizionario con le Raccolte italiane, può vedere dov'era la vita e dov'era la morte. Che faceva l'Italia innanzi a quel colossale movimento di cose e d'idee? L'Italia creava l'Arcadia. Era il vero prodotto della sua esistenza individuale e morale. I suoi poeti rappresentavano l'età dell'oro, e in quella nullità della vita presente fabbricavano temi astratti e insipidi amori tra pastori e pastorelle. I suoi scienziati, lasciando correre il mondo per la sua china, si occupavano del mondo antico e scrutavano in tutti i versi le reliquie di Roma e di Atene; e poichè le idee erano date e non discutibili, si occupavano de' fatti, e non potendo essere autori, erano interpreti, comentatori ed eruditi. Letteratura e scienza erano Arcadia, centro Cristina di Svezia, povera donna, che non comprendendo i grandi avvenimenti, de' quali erano stati tanta parte i suoi Gustavo e Carlo, si era rifuggita a Roma co' suoi tesori, e si sentiva tanto felice tra quegli arcadi, ch'ella proteggeva, e che con dolce ricambio chiamavano lei «immortale e divina». Felice Cristina! E felice Italia! L'inferiorità intellettuale degli italiani era già un fatto noto nella dotta Europa, e ne attribuivano la cagione al mal governo papale-spagnuolo. Gli stessi italiani aveano oramai coscienza della loro decadenza, e non avvezzi più a pensare col capo proprio, attendevano con avidità le idee oltramontane, e mendicavano elogi da' forestieri. Giovanni Leclerc scriveva anno per anno la sua Biblioteca, una specie d'inventario ragionato delle opere nuove. E come si tenea fortunato quell'italiano, che potea averci là dentro un posticino! La lingua francese era divenuta quasi comune, e prendeva il posto della latina. Un movimento d'importazione c'era, lento, e impedito da molti ostacoli, e vivamente combattuto nelle accademie e nelle scuole, dove regnava Suarez e Alvarez, tra interpreti e comentatori. La Fisica di Cartesio penetrò in Napoli settanta anni dopo la sua morte, e quando già era dimenticata in Francia, e non si aveva ancora notizia del suo Metodo e delle sue Meditazioni. Grozio girava per le mani di pochi. Di Spinosa e di Hobbes il solo nome faceva orrore. Di Giovanni Locke appena qualche sentore. Un movimento si annunziava negli spiriti, quel non so che di vago, quel bisogno di cose nuove che testimonia il ritorno della vita. Pareva che il cervello, dopo lungo sonno, si svegliasse. I renatisti penetravano nelle scuole co' loro «metodi strepitosi», come li chiamava Vico, promettitori di scienza facile e sicura. Definizioni, assiomi, problemi, teoremi, scolii, postulati cacciavano di sede sillogismi, entimemi e soriti. Il «quod erat demonstrandum» succedeva all'«ergo». Chiamavano «pedanti» i peripatetici, e questi chiamavano loro «ciarlatani». Sempre così. Il vecchio è detto «pedanteria», ed il nuovo «ciarlataneria». E qualche cosa di vero c'è. Perchè il vecchio nella sua decrepitezza e stagnazione ha del pedante, e il nuovo nella sua giovanile esagerazione ha del ciarlatano. Ciascuno ha il suo lato debole, che non può nascondere all'occhio acuto e appassionato dell'avversario. La riforma cartesiana in Italia non produsse alcun serio progresso scientifico, com'è d'ogni scienza importata e non uscita da una lenta elaborazione dello spirito nazionale. Fu utile come mezzo di diffusione delle idee nuove. Le quali, cacciate d'Italia co' roghi, con gli esili, con le torture e coi pugnali, vi rientrarono sotto la protezione delle idee cristiane. La riforma era detta il «platonismo cartesiano», ed aveva aria di ribenedire la religione in nome della filosofia. L'Inquisizione, in quel movimento rapidissimo d'idee, preoccupata di Spinosa, aperto nemico, lasciava passare il nuovo Platone, che almeno non toccava i dogmi. I peripatetici invocarono l'Inquisizione contro i novatori, e i novatori rispondevano proclamando Aristotile nemico della religione. Così il movimento ricominciava in Italia, col permesso o almeno la tolleranza di Roma. Ed era movimento arcadico, confinato nelle astrattezze e rispettoso verso tutte le istituzioni. Il movimento rimaneva superficiale; ma si diffondeva, guadagnava gli animi alle novità, sopraffaceva i peripatetici, s'infiltrava nella nuova generazione, la metteva in comunione coll'Europa, preparava la trasformazione dello spirito nazionale. Il serio movimento scientifico usciva di là, dove s'era arrestato, dal seno stesso dell'erudizione. Lo studio del passato era come una ginnastica intellettuale, dove lo spirito ripigliava le sue forze. Alle raccolte successero le illustrazioni. E vi si sviluppò uno spirito d'investigazione, di osservazione, di comparazione, dal quale usciva naturalmente il dubbio e la discussione. Lo spirito nuovo inseguiva gli eruditi tra quegli antichi monumenti. Già non erano più semplici eruditi, erano critici. In Europa la critica usciva dal libero esame e dalla ribellione: era roba eretica. In Italia era parte di Arcadia, un esercizio intellettuale sul passato, e li lasciavano fare. Il critico di Europa era Bayle; il critico d'Italia era Muratori. Le sue vaste e diligenti raccolte, Rerum italicarum scriptores, Antiquitates medii aevi, Annali d'Italia, Novus thesaurus inscriptionum, la Verona illustrata e la Storia diplomatica di Scipione Maffei, le Illustrazioni del Fabretti segnano già questo periodo, dove la scienza è ancora erudizione, e nella erudizione si sviluppa la critica. Non è ancora filosofia, ma è già buon senso, fortificato dalla diligenza della ricerca, e dalla pazienza dell'osservazione. Muratori è assai vicino a Galileo per il suo spirito positivo e modesto, e pel giusto criterio. E anche egli osò. Osò combattere il potere temporale, osò porre in guardia gl'italiani contro gli errori e le illusioni della fantasia. Se non gliene venne condanna, fu tolleranza intelligente di Benedetto decimoquarto, il quale disse che «le opere degli uomini grandi non si proibiscono», e che la quistione del potere temporale «era materia non dogmatica nè di disciplina». Anche il Maffei parve incredulo al Tartarotti, perchè negava la magia, e parve eretico al padre Concina, perchè scrivea De' teatri antichi e moderni; ma quel buon papa decretò «non doversi abolire i teatri, bensì cercare che le rappresentazioni siano al più possibile oneste e probe». L'Italia papale era più papista del papa. Un arcade era pure Gian Vincenzo Gravina, tutto Grecia e Roma, tutto papato e impero, fra testi e comenti, con le spalle vòlte all'Europa. Dommatico e assoluto, sentenzia e poco discute, in istile monotono e plumbeo. È ancora il pedante italiano, sepolto sotto il peso della sua dottrina, senza ispirazione, nè originalità, e così vuoto di sentimento, come d'immaginazione. Pure già senti che siamo verso la fine del secolo. Già non hai più innanzi l'erudito che raccoglie e discute testi, ma il critico che si vale della storia e della filosofia per illustrare la giurisprudenza, e si alza ad un concetto del dritto, e ne cerca il principio generatore. Anche la sua Ragion poetica, se non mostra gusto e sentimento dell'arte, colpa non sua, esce da' limiti empirici della pura erudizione, e ti dà riflessioni d'un carattere generale. Ecco un altro uomo d'ingegno, Francesco Bianchini, veronese. A che pensa costui? Pensa agli assiri, a' medi e a' troiani. Non raccoglie, ma pensa, cioè a dire scruta, paragona, giudica, congettura, arzigogola e costruisce. I monumenti non rimangono più lettera morta: parlano, illustrano la cronologia e la storia. Per mezzo di essi si stabiliscono le date, le epoche, i costumi, i pensieri, i simboli, si rifà il mondo preistorico. In questa geologia della storia i fatti e gli uomini vacillano, si assottigliano, diventano favole, e le favole diventano idee. Comparve la sua Storia nel 1697, Vico aveva ventinove anni. L'erudizione generava dunque la critica. In Italia si svegliava il senso storico e il senso filosofico. E si svegliava non sul vivo, ma sul morto, nello studio del passato. Questo era il carattere del suo progresso scientifico. Quelli che si occupavano del presente a loro rischio, erano cervelli spostati. E tra questi cervelli balzani c'era il milanese Gregorio Leti, che pose in luce la cronaca scandalosa dell'età in uno stile che vuol essere europeo e non è italiano, e Ferrante Pallavicino nel suo Corriere svaligiato, una specie di satira-omnibus, dove ce n'è per tutti. In quel vacuo dell'esistenza sciupavano l'ingegno in argomenti grotteschi, e in forme che parevano ingegnose ed erano freddure, un seicentismo arcadico. Il canonico Garzoni scrivea il Teatro de' cervelli mondani, L'Ospedale de' pazzi incurabili, la Sinagoga degl'ignoranti, il Serraglio degli stupori del mondo. Sono discorsi accademici, infarciti d'erudizione indigesta, più curiosa che soda. I quali erano la vera piaga d'Italia, e attestavano una coltura verbosa e pedantesca senz'alcuna serietà di scopo e di mezzi. Il più noto di questi dotti, e ce n'erano moltissimi, è Anton Maria Salvini, cervello ingombro, cuore fiacco e immaginazione povera, vita vuota. E volle tradurre Omero. Fra tanta erudizione cresceva Vico. Studiò la filosofia in Suarez, la grammatica in Alvarez, il dritto in Vulteio. Pedagogo in casa della Rocca in Vatolla, un paesello nel Cilento, si chiuse per nove anni nella biblioteca del convento, e vi si formò come Campanella. Quando, compiuto il suo ufficio, tornò in Napoli, era già un uomo dotto, come poteva essere un italiano, e ce n'erano parecchi anche tra' gesuiti. Era il tempo del Muratori, del Fontanini, dell'abate Conti, del Maffei, del Salvini. «dottissimo, eruditissimo» era Lionardo da Capua, e Tommaso Cornelio «latinissimo»: così li qualifica Vico. Il quale conosceva a fondo il mondo greco e latino, Aristotile e Platone con tutta la serie degl'interpreti fino a quel tempo; ammirava nel Cinquecento quello stesso mondo redivivo ne' Ficini, ne' Pico, ne' Mattei Acquaviva, ne' Patrizi, ne' Piccolomini, ne' Mazzoni; di letteratura, di archeologia, di giurisprudenza peritissimo; il medio evo gli era giunto con la scolastica e con Aristotile, il Cinquecento con Platone e Cicerone; de' fatti europei sapeva quanto era possibile in Italia. Era un dotto del Rinnovamento, che scoteva da sè la polvere del medio evo e cercava la vita e la verità nel mondo antico. Il suo sapere era erudizione, la forma del suo pensiero era latina, e il suo contenuto ordinario era il dritto romano. Avvocato senza clienti, fece il letterato e il maestro di scuola. Passati erano i bei tempi di Pietro Aretino. La letteratura senza l'insegnamento era povera e nuda, come la filosofia. Andava per le case insegnando, facea canzoni, dissertazioni, orazioni, vite, a occasione o a richiesta. Lo conobbe don Giuseppe Lucina, «uomo di una immensa erudizione greca, latina e toscana in tutte le spezie del sapere umano e divino», e lo fe' conoscere a don Niccolò Caravita, un avvocato primario e «gran favoreggiatore de' letterati». Vico, parte merito, parte protezione, fu professore di rettorica all'università. Vita semplice e ordinaria, dal 1668 al 1744. Vita accademica, tranquilla, di erudito italiano, formatosi nelle biblioteche e fuori del mondo, rimasto abbarbicato al suolo della patria. Il movimento europeo gli giunse a traverso la sua biblioteca, e gli giunse nella forma più antipatica a' suoi studi e al suo genio. Gli venne addosso la fisica di Gassendi, e poi la fisica di Boyle, e poi la fisica di Cartesio. - La gran novità - pensava il nostro erudito. - Ma l'hanno già detto, questo, Epicuro e Lucrezio. - E per capire Gassendi si pose a studiare Lucrezio. Ma la novità piacque. - Fisica, fisica vuol essere, - diceva la nuova generazione - macchine; non più logica scolastica, ma Euclide; sperimenti, matematiche; la metafisica bisogna lasciarla ai frati. - Che diveniva Vico con la sua erudizione e col suo dritto romano? Reagì, e cercò la fisica non con le macchine e con gli sperimenti, ma ne' suoi studi di erudito. Le scienze positive entravano appena nel gran quadro della sua cultura, e di matematiche sapeva non oltre di Euclide, stimando «alle menti già dalla metafisica fatte universali non... agevole quello studio proprio degli ingegni minuti». Cercò dunque la fisica fuori delle matematiche e fuori delle scienze sperimentali, la cercò fra i tesori della sua erudizione, e la trovò nei «numeri» di Pitagora, ne' «punti» di Zenone, nelle «idee divine» di Platone, nell'antichissima sapienza italica. L'Europa aveva Newton e Leibnizio; e a Napoli si stampava De antiquissima italorum sapientia. Erano due colture, due mondi scientifici che si urtavano. Da una parte era il pensiero creatore, che faceva la storia moderna, dall'altra il pensiero critico che meditava sulla storia passata. Chiuso nella sua erudizione, segregato nella sua biblioteca dal mondo de' vivi, quando Vico tornò in Napoli, trovò nuova cagione di maraviglia. L'aveva lasciata tutto fisica; la trovava tutto metafisica. Le Meditazioni e il Metodo di Cartesio avevano prodotto la nuova mania. Vico sentì disgusto per una città che cangiava opinione da un dì all'altro «come moda di vesti». E vi si sentì straniero, e vi stette per alcun tempo straniero e sconosciuto. Vedeva il movimento attraverso i suoi studi e i suoi preconcetti. Quelle fisiche atomistiche gli pareva non poter condurre che all'ateismo e alla morale del piacere, e le accusava di falsa posizione, perchè l'atomo, il loro principio, era corpo già formato, perciò era principiato e non il principio, e andava cercando il principio al di là dell'atomo, ne' numeri e ne' punti. Soffiava in lui lo stesso spirito di Bruno e di Campanella. Si sentiva concittadino di Pitagora e discepolo dell'antica sapienza italica. Quanto al metodo geometrico, rifiutava di ammetterlo come una panacea universale: era buono in certi casi, e si potea usarlo senza quel lusso di forme esteriori, dove vedea ambizione, pretensione e ciarlataneria. Il «cogito»gli pareva così poco serio, come l'atomo. Era anch'esso principiato e non principio; dava fenomeni, non dava la scienza. Giudicava Cartesio uomo ambiziosissimo ed anche un po' impostore, e quel suo «metodo», dove, annullando la scienza con la bacchetta magica del suo «cogito», la fa ricomparire a un tratto, gli pareva un artificio rettorico. Quel suo de omnibus dubitandum lo scandalizzava. Quella tavola rasa di tutto il passato, quel disprezzo di ogni tradizione, di ogni autorità, di ogni erudizione, lo feriva nei suoi studi, nella sua credenza e nella sua vita intellettuale, e si difendeva con vigore, come si difende dal masnadiero la roba e la vita. La diffusione della coltura, la moltiplicità dei libri, quei metodi strepitosi abbreviativi, quella superficialità di studi con tanta audacia di giudizi, fenomeni naturali di ogni transizione, quando un mondo se ne va e un altro viene, movevano la sua collera. Avvezzo ai severi e profondi studi, a pensare co' sapienti ed a scrivere pei sapienti, gli spiacea quella tendenza a vulgarizzare la scienza, quella rapida propagazione d'idee superficiali e cattive. E se la pigliava con la stampa. Si gloriava di non appartenere a nessuna setta. E lì era il suo punto debole. Posto tra due secoli, in quel conflitto di due mondi che si davano le ultime battaglie, non era nè con gli uni, nè con gli altri, e le cantava a tutti e due. Era troppo innanzi pe' peripatetici, pe' gesuiti e per gli eruditi; era troppo indietro per gli altri. Questi trovavano ridicoli i suoi «punti metafisici»; quelli trovavano avventate le sue etimologie e sospetta la sua erudizione. Era da solo un terzo partito, come si direbbe oggi, la ragione serena e superiore, che nota le lacune, le contraddizioni e le esagerazioni, ma ragione ancora disarmata, solitaria, senza seguaci, fuori degl'interessi e delle passioni, perciò in quel fervore della lotta appena avvertita e di nessuna efficacia. Se dietro al critico ci fosse stato l'uomo, un po' di quello spirito propagatore e apostolico di Bruno e Campanella, sarebbe stato vittima degli uni e degli altri. Ma era un filosofo inoffensivo, tutto cattedra, casa e studio, e guerreggiava contro i libri, rispettosissimo verso gli uomini. Oltrechè le sue ubbie rimanevano nelle altissime regioni della filosofia e della erudizione, dove pochi potevano seguirlo, e fu lasciato vivere fra le nubi, stimato per la sua dottrina, venerato per la sua pietà e bontà. Conscio e scontento della sua solitudine, vi si ostinò, benedicendo «non aver lui avuto maestro nelle cui parole avesse giurato», e ringraziando «quelle selve, fra le quali dal suo buon genio guidato, aveva fatto il maggior corso de' suoi studi». Il latino veniva in fastidio, ed egli pose da canto greco e toscano, e fu tutto latino. Veniva in moda il francese: e' non volle apprendere il francese. La letteratura tendeva al nuovo, ed egli accusava questa letteratura «non... animata dalla sapienza greca..., o invigorita dalla grandezza romana». Nella medicina era con Galeno contro i moderni, divenuti scettici «per le spesse mutazioni de' sistemi di fisica». Nel dritto biasimava gli eruditi moderni, e se ne stava con gli antichi interpreti. Vantavano l'evidenza delle matematiche; ed egli se ne stava tra' misteri della metafisica. Predicavano la ragione individuale, ed egli le opponeva la tradizione, la voce del genere umano. Gli uomini popolari, i progressisti di quel tempo, erano Lionardo di Capua, Cornelio, Doria, Calopreso, che stavano con le idee nuove, con lo spirito del secolo. Lui era un retrivo, con tanto di coda, come si direbbe oggi. La coltura europea e la coltura italiana s'incontravano per la prima volta, l'una maestra, l'altra ancella. Vico resisteva. Era vanità di pedante? era fierezza di grande uomo? Resisteva a Cartesio, a Malebranche, a Pascal, i cui Pensieri erano «lumi sparsi», a Grozio, a Puffendorfio, a Locke, il cui Saggio era la «metafisica del senso». Resisteva, ma li studiava più che non facessero i novatori. Resisteva come chi sente la sua forza e non si lascia sopraffare. Accettava i problemi, combattea le soluzioni, e le cercava per le vie sue, co' suoi metodi e coi suoi studi. Era la resistenza della coltura italiana, che non si lasciava assorbire, e stava chiusa nel suo passato, ma resistenza del genio, che cercando nel passato trovava il mondo moderno. Era il retrivo che guardando indietro e andando per la sua via, si trova da ultimo in prima fila, innanzi a tutti quelli che lo precedevano. Questa era la resistenza di Vico. Era un moderno, e si sentiva e si credeva antico, e resistendo allo spirito nuovo, riceveva quello entro di sè. Bacone gli aveva fatta una grande impressione. Era il suo uomo, dopo Platone e Tacito. Quel suo libro, De augumentis scientiarum, gli faceva dire: - Roma e Grecia non hanno avuto un Bacone. - Trovava in lui congiunto il senso ideale di Platone, il senso pratico di Tacito, la «sapienza riposta» dell'uno, la sapienza volgare dell'altro. E poi, gli apriva nuovi orizzonti. Avea studiato tanto, e la sua scienza non era più un libro chiuso, ci era tanto da aggiungere, tanto da riformare. Voleva egli pure conferire del suo «nella somma che costituisce l'universal repubblica delle lettere». Non è più un erudito immobilizzato nel passato, è un riformatore, un investigante. Critica, dubita, esamina, approfondisce. Sente il morso dello spirito nuovo. Ne' suoi studi dell'antica sapienza italica, vedi già il disdegno delle «etimologie grammaticali», il dispregio dell'erudizione volgare, l'uomo che tenta nuove vie, intravvede nuovi orizzonti, cerca tra i particolari le alte generalità. Più tardi gli capitò Grozio. E divenne il suo «quarto autore». Grozio gli completa Bacone. Costui vide «tutto il saper umano e divino doversi supplire in ciò che non ha, ed emendare in ciò che ha; ma intorno alle leggi..., non s'innalzò troppo all'universo delle città ed alla scorsa di tutt'i tempi, nè alla distesa di tutte le nazioni». Grozio gli dà un dritto universale, in cui «è sistemata tutta la filosofia e teologia». Il comentatore del dritto romano si sente alzare a filosofo. Cerca una filosofia del dritto con Grozio, e si fa il suo annotatore: poi riflette che è un eretico, e lascia stare. La materia della sua coltura è sempre quella, dritto romano, storia romana, antichità. La sua fisica è pitagorica, la sua metafisica è platonica, conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia e l'ente, l'uno, Dio. Tutto viene da Dio, tutto torna a Dio, l'«unum simplicissimum» di Ficino. L'uomo e la natura sono le sue ombre, i suoi fenomeni. La scienza è conoscere Dio, «perdere se stesso» in Dio. E vien su il Dio di Campanella, l'eterno lume, il senno eterno, con le sue primalità, «nosse, velle, posse». Fin qui Vico è un luogo comune. La sua erudizione e la sua filosofia camminano in linea parallela, e non s'incontrano. Manca l'attrito. Ci è l'ascetico, il teologo, il platonico, l'erudito, ci è l'italiano di quel tempo nello stato ordinario delle sue credenze e della sua cultura. Dentro a questa cultura e contro a queste credenze venne ad urtare Cartesio. - La cultura non ha valore; del passato bisogna far tavola. Datemi materia e moto, ed io farò il mondo. Il vero te lo dà la coscienza ed il senso. - Cosa diveniva l'erudizione di Vico, la fisica di Vico, la metafisica di Vico? Cosa divenivano le «idee divine» di Platone? E il « simplicissimum» di Ficino cosa diveniva? E il dritto romano, la storia, la tradizione, la filologia, la poesia, la rettorica, non era più buona a nulla? Nella violenta contraddizione Vico sviluppò le sue forze. Uscì del vago e del comune, trovò un terreno, un problema, un avversario. La sua erudizione si spiritualizzava. La sua filosofia si concretava. E si compivano l'una nell'altra. Già non si perde negli accessorii; vede e investe subito la dottrina avversaria nella sua base. Vuole atterrare Cartesio, e con lo stesso colpo atterra tutta la nuova scienza, e non andando indietro, ma andando più avanti. La sua confutazione di Cartesio è completa, è l'ultima parola della critica. Ma la sua critica non è solo negativa: è creatrice; la negazione si risolve in un'affermazione più vasta, che tirasi appresso, come frammenti di verità, le nuove dottrine, e le alloga, le mette a posto. La nuova scienza, la scienza degli uomini nuovi, trova nella Scienza nuova il suo limite, e perciò la sua verità. La nuova scienza, uscita da lotta religiosa e politica, è in uno stato di guerra contro il passato, e lo combatte sotto tutte le sue forme. La tradizione, l'autorità, la fede è il suo nemico, e cerca riparo nella forza e nell'indipendenza della ragione individuale; gli «universali», gli «enti», le «quiddità» lo infastidiscono della metafisica, e cerca la sua base nella psicologia, nella coscienza; il soprannaturale, il sopramondano offende il suo intelletto adulto, e vi oppone lo studio diretto della natura, la fisica nel suo senso più generale, le scienze positive; al gergo scolastico cerca un antidoto nella precisione delle matematiche, nel metodo geometrico; ai misteri, alle cabale, alle scienze occulte, alle astrazioni oppone l'esperienza rischiarata dall'osservazione, la percezione chiara e distinta, l'evidenza della coscienza e del senso; alla società in quello stato di corruzione oppone l'uomo integro e primitivo, la natura dell'uomo, dalla quale cava i princìpi della morale e del dritto. Questo è lo spirito della nuova scienza: naturalismo e umanismo, fisica e psicologia. Cartesio in maschera di Platone porta la bandiera. Ma non inganna Vico, che gli strappa la maschera. - Tu non sei che un epicureo. La tua fisica è atomistica, la tua metafisica è sensista, il tuo trattato Delle passioni par fatto più per i medici che per i filosofi; segui la morale del piacere. - Combattendo Cartesio, la quistione gli si allarga, attinge nella sua essenza tutto il nuovo movimento. Anch'esso è un'astrazione. È un'ideologia empirica, idea vuota, e vuoto fatto. L'importante non è di dire «io penso» (la grande novità!), ma è di spiegare come il pensiero si fa. L'importante non è di osservare il fatto, ma di esaminare come il fatto si fa. Il vero non è nella sua immobilità, ma nel suo divenire, nel suo «farsi». L'idea è vera, colta nel suo farsi. Il pensiero è moto che va da un termine all'altro, è idea che si fa, si realizza come natura, e ritorna idea, si ripensa, si riconosce nel fatto. Perciò «verum et factum», vero e fatto sono convertibili, nel fatto vive il vero, il fatto è pensiero, è scienza; la storia è una scienza, e come ci è una logica per il moto delle idee, ci è anche una logica per il moto de' fatti, una «storia ideale eterna, sulla quale corrono le storie di tutte le nazioni». Ecco ribenedetta tradizione, autorità e fede; ecco filologia, storia, poesia, mitologia, tutta l'erudizione rientrata in grembo della scienza. La storia è fatta dall'uomo, come le matematiche, e perciò è scienza non meno di quelle. È il pensiero che fa quello che pensa, è la «metafisica della mente umana», la sua «costanza», il suo processo di formazione secondo le leggi fisse del pensiero umano. Perciò la sua base non è nella coscienza individuale, ma nella coscienza del genere umano, nella ragione universale. I nuovi filosofi vogliono rifare il mondo coi loro princìpi assoluti, co' loro dritti universali. Ma non sono i filosofi che fanno la storia, e il mondo non si rifà con le astrazioni. Per rifare la società non basta condannarla: bisogna studiarla e comprenderla. E questo fa la «Scienza nuova». A Vico non basta porre le basi; mette mano alla costruzione. Se la storia ha la sua costanza scientifica, se è fatta dal pensiero, com'e fatta? Qual è il suo processo di formazione? Che la storia sia una scienza, non era cosa nuova nella filosofia italiana. Alla storia formata dall'arbitrio divino e dal caso Machiavelli avea già contrapposta la «forza delle cose», lo spirito della storia eterno e immutabile. L'«intelletto universale» di Bruno, la «ragione che governa il mondo» di Campanella rientrano nella stessa idea. Platone con le sue «idee divine» porgeva già il filo a Vico. L'importante era di eseguire il problema, il cui dato era già posto, era il trovar le leggi di questo spirito della storia, era il «probare per causas», il generare la storia come l'uomo genera le matematiche, il fare la storia della storia, ciò che era fare una scienza nuova. Di questa storia ideale egli «ritrova le guise dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana», cerca la base nella natura dell'uomo, doppio com'è, spirito e corpo. È una psicologia applicata alla storia. Stabilisce alcuni canoni psicologici, ch'egli chiama «degnità», o «princìpi». Il concetto è questo: che l'uomo, come essere naturale, opera per istinti, sotto la pressura dei suoi bisogni, interessi e passioni; ma ivi appunto si sviluppa come essere pensante, come Mente, sì che nelle sue opere più grossolane e corpulente ce n'è come un'immagine velata, il sentore. La quale immagine si fa più chiara, secondo che «la mente più si spiega», insino a che il pensiero si manifesta nella sua propria forma, opera come riflessione o filosofia. Questo, che è il corso naturale della vita individuale, è anche il corso naturale e la storia di tutte le nazioni, quando non ci sia interruzione o deviazione per violenza di casi estrinseca, come fu per Numanzia oppressa nel suo fiorire da' romani. Perciò nelle nazioni ci è tre età, la divina, l'eroica e la umana. Precede lo stato selvaggio o di mera barbarie, dove l'uomo è servo del corpo, e come una «fiera vagante nella gran selva della terra». La libertà è il «tenere in freno i moti della concupiscenza, che viene dal corpo, e dar loro altra direzione, che viene dalla mente ed è propria dell'uomo». Secondo che la mente si spiega, o si fa più intelligente, si sviluppa la libertà, prevale la ragione o l'«umanità». La prima età ragionevole o socievole, l'età divina, sorse co' matrimoni e l'agricoltura, quando, «a' primi fulmini dopo l'universal diluvio», gli uomini «si umiliarono ad una forza superiore che immaginarono essere Giove, e tutte le umane utilità e tutti gli aiuti porti nelle loro necessità immaginarono essere dei». Allora, rinunziando alla vaga venere, ebbero certe mogli, certi figli e certe dimore, sorsero le famiglie governate da' padri con «famigliari imperii ciclopici». In questi regni famigliari, divenuti sicuro asilo contro i selvaggi o vaganti, riparavano i deboli e gli oppressi, che furono ricevuti in protezione, come clienti o famoli. Così si ampliarono i regni famigliari, e si spiegarono le «repubbliche erculee» sopra ordini naturalmente migliori per virtù eroiche, la pietà verso gl'iddii, la prudenza, o il consigliarsi co' divini auspìci, la temperanza, onde i concubiti umani e pudichi co' divini auspìci, la fortezza, uccider fiere, domar terreni, la magnanimità, il soccorrere a' deboli e a' pericolanti. In questi primi ordini naturali comincia la libertà, e il primo spiegarsi della mente. Nacque la corruzione. I padri, lasciati grandi per la religione e virtù de' loro maggiori e per le fatiche de' clienti, tralignarono, uscirono dall'ordine naturale, che è quello della giustizia, abusarono delle leggi di protezione e di tutela, tiranneggiarono: indi la ribellione de' clienti. Allora padri delle famiglie si unirono con le loro attinenze in ordini contro di quelli, e per pacificarli, con la prima legge agraria concessero il «dominio bonitario», ritenendosi essi il «dominio ottimo», o «sovrano famigliare»: onde nacquero le prime città sopra «ordini regnanti di nobili», e l'«ordine civile». Finirono i regni divini: cominciarono gli eroici. La religione fu custodita negli ordini eroici, e perciò gli auspìci e i matrimoni, e per essa religione furono de' soli eroi tutt'i diritti e tutte le ragioni civili. Ma «spiegandosi le umane menti», i plebei intesero essere di egual natura umana co' nobili, e vollero entrare anch'essi negli ordini civili delle città, essere sovrani nelle città. Finisce l'età eroica, comincia l'età umana, l'età della eguaglianza, la «repubblica popolare», dove comandano gli ottimi non per nascita, ma per virtù. In questo stato della mente agli uomini non è più necessario fare le azioni virtuose per «sensi di religione», perchè la filosofia fa intendere le «virtù nella loro idea»; in forza della quale riflessione, quando anche gli uomini non abbiano virtù, almeno si vergognano de' vizi. Nasce la filosofia e l'eloquenza, insino a che l'una è corrotta dagli scettici, l'altra da' sofisti. Allora, corrompendosi gli stati popolari, viene l'anarchia, il totale disordine, la peggiore delle tirannidi, che è la sfrenata libertà de' popoli liberi. I quali o cadono in servitù di un monarca, che rechi in sua mano tutti gli ordini e tutte le leggi con la forza delle armi; o diventano schiavi per «diritto natural delle genti», conquistati con armi da nazioni migliori, essendo giusto che chi non sa governarsi da sè si lasci governare da altri che il possa, e che nel mondo governino sempre i migliori; o, abbandonati a sè, in quella folla di corpi vivendo in una solitudine d'animi e di voleri, seguendo ognuno il suo piacere e capriccio, con disperate guerre civili vanno a fare selve delle città, e delle selve covili d'uomini, e in lunghi secoli di barbarie vanno ad «irrugginire le malnate sottigliezze degl'ingegni maliziosi». Con questa «barbarie della riflessione» si ritorna allo stato selvaggio, alla «barbarie del senso», e ricomincia con lo stess'ordine una nuova storia, si rifà lo stesso corso. Questa è la «storia ideale eterna», la logica della storia, applicabile a tutte le storie particolari. È in fondo la storia della mente nel suo spiegarsi, come dice Vico, dallo stato di senso, in cui è come dispersa, sino allo stato di riflessione, in cui si riconosce e si afferma. L'operazione con la quale l'intelletto giunge alla verità è la stessa operazione con la quale l'intelletto fa la storia. Locke aveva il suo complemento in Vico. La teoria della conoscenza aveva il suo riscontro nella teoria della storia. Era una nuova applicazione della psicologia. Gli uomini operano secondo i loro impulsi e fini particolari; ma «i risultati sono superiori a' loro fini», sono risultati mentali, il successivo progredire della mente nel suo spiegarsi. Perciò le passioni, gl'interessi, gli accidenti, i fini particolari sono non la storia, ma le occasioni, e gl'istrumenti della storia; perciò una scienza della storia è possibile. Machiavelli e Hobbes ti dànno la storia occasionale, non la storia finale e sostanziale. La loro storia è vera, ma non è intera, è frammento di verità. La verità è nella totalità, nel vedere «cuncta ea, quae in re insunt, ad rem sunt affecta», l'idea nella pienezza del suo contenuto e delle sue attinenze. Machiavelli è non meno di Vico un profondo osservatore de' fatti psicologici, è un ritrattista, ma non è un metafisico. La psicologia di Vico entra già nelle regioni della metafisica, ti dà le prime linee della nuova metafisica, fondata non sull'immobilità dell'ente guardato nei suoi attributi, ma sul suo moto o divenire; perciò non descrizione o dimostrazione, come te la dava Aristotile e Platone, ma vero dramma, la storia dello spirito nel mondo. In questo dramma tutto ha la sua spiegazione, tutto è allogato, la guerra, la conquista, la rivoluzione, la tirannide, l'errore, la passione, il male, il dolore, fatti necessari e strumenti del progresso. Ciascuna età storica ha la sua guisa di nascere e di vivere, la sua natura, onde procede la forza delle cose, la sapienza volgare del genere umano, il senso comune delle genti, la forza collettiva. Non è l'individuo, è questa forza collettiva, che fa la storia; e spesso i più celebrati individui non sono che simboli e immagini, «caratteri poetici» di quella forza, come Zoroastro, Ercole, Omero, Solone. Cerchi un individuo, e trovi un popolo; cerchi un fatto, e trovi un'idea. Fabbro della storia è «l'umano arbitrio regolato con la sapienza volgare». Rimaneva a dare la dimostrazione di questa storia ideale: dimostrare cioè che tutte le storie particolari sono, secondo quella, regolate da uno stesso corso d'idee, ubbidienti a un solo tipo. La prova poteva cercarla a priori nella logica stessa dello spirito nel suo spiegarsi. Lo spirito si estrinseca in conformità della sua natura, in che è la sua logica, la legge del suo divenire, e quel divenire è appunto la storia. Ma Vico, appena adombrate le prime linee della nuova metafisica, si arresta sulla soglia, e ritorna erudito, e cerca la prova a posteriori, consultando tutte le storie, e cercando in tutte il suo corso, il suo sistema, e non solo nelle grandi linee, ma ne' più minuti accidenti. Impresa titanica di erudizione e critica italiana. E s'immerge tra' «rottami dell'antichità», e raccoglie i minimi frammenti, e li anima: «intus legit», li fa corpi interi, ricostituisce la storia reale a immagine della sua storia ideale. È il mondo guardato da un nuovo orizzonte, ricreato dalla critica e dalla filosofia, e con la sua originalità scolpita in quella potente forma, lapidaria e metaforica, come una legge delle dodici tavole. Cerca tra quei rottami la prova della «scienza nuova», e scopre per via nuove scienze. Lingua, mitologia, poesia, giurisprudenza, religioni, culti, arti, costumi, industrie, commercio, non sono fatti arbitrari, sono fatti dello spirito, le scienze della sua Scienza. Cronologia, geografia, fisica, cosmografia, astronomia, tutto si rinnova sotto questa nuova critica. Ad ogni passo senti il grido trionfale del gran creatore: - Ecco una nuova scoperta! - Alla metafisica della mente umana, filosofia dell'umanità o delle idee umane, onde scaturisce una giurisprudenza, una morale e una politica del genere umano, corrisponde la logica, «fas gentium», una scienza dell'espressione di esse idee, la filologia. Ecco dunque una scienza delle lingue e de' miti e delle forme poetiche, una lingua del genere umano, una teoria dell'espressione ne' miti, ne' versi, nel canto, nelle arti. E come teoria e scienza non è che «natura delle cose», e la natura delle cose è nelle «guise di lor nascimenti»; l'uomo ardito, sgombro lo spirito d'ogni idea anticipata e fidato al solo suo intendere; si addentra nelle origini dell'umanità, guaste dalla doppia «boria» «delle nazioni e de' dotti», e tu assisti alla prima formazione delle società, de' governi, delle leggi, de' costumi, delle lingue, vedi nascere la storia di entro la mente umana, e svilupparsi logicamente da' suoi elementi o princìpi, «religione, nozze, sepolture», svilupparsi sotto tutte le forme, come governo, come legge, come costume, come religione, come arte, come scienza, come fatto, come parola. La sua grande erudizione gli porge infiniti materiali, che interpreta, spiega, alloga, dispone, secondo i bisogni della sua costruzione, audace nelle etimologie, acuto nelle interpretazioni e ne' confronti, sicurissimo ne' suoi procedimenti e nelle sue conclusioni, e con l'aria di chi scopre ad ogni tratto nuovi mondi, tenendo sotto i piedi le tradizioni e le storie volgari. Così è nata questa prima storia dell'umanità, una specie di Divina Commedia, che dalla «gran selva della terra» per l'inferno del puro sensibile si va realizzando tra via sino all'età umana della riflessione o della filosofia; irta di forme, di miti, di etimologie, di simboli, di allegorie, e non meno grande che quella; pregna di presentimenti, di divinazioni, d'idee scientifiche, di veri e di scoperte: opera di una fantasia concitata dall'ingegno filosofico e fortificata dall'erudizione, che ha tutta l'aria di una grande rivelazione. È la Divina Commedia della scienza, la vasta sintesi, che riassume il passato e apre l'avvenire, tutta ancora ingombra di vecchi frantumi dominati da uno spirito nuovo. Platonico e cristiano, continuatore di Ficino e di Pico, uno di spirito con Torquato Tasso, Vico non comprende la Riforma, e non i tempi nuovi, e vuol concordare la sua filosofia con la teologia, e la sua erudizione con la filosofia, costruire un'armonia sociale come un'armonia provvidenziale. La sua metafisica ha sotto i pie il globo, e gli occhi estatici in su verso l'occhio della provvidenza, onde le piovono i raggi delle divine idee. Vuole la ragione, ma vuole anche l'autorità, e non certo degli «addottrinati», ma del genere umano; vuole la fede e la tradizione; anzi fede e tradizione non sono che essa medesima la ragione, «sapienza volgare». Tale era l'uomo formato nella biblioteca di un convento; ma, entrando nel mondo de' viventi, lo spirito nuovo l'incalza, e combattendo Cartesio, subisce l'influenza di Cartesio. Era impossibile che un uomo d'ingegno non dovesse sentirsi trasformare al contatto dell'ingegno. Tutto dietro a costruir la sua scienza, gli si affaccia il «de omnibus dubitandum » ed il «cogito»:
Parole auree, che sembrano tolte da una pagina del Metodo. E in questa ignoranza cartesiana, qual è l'«unica verità», che fra tante dubbiezze non si può mettere in dubbio, ed è perciò la «prima di siffatta Scienza»? È il «cogito», è la mente umana.
La provvidenza e la metafisica, che guarda in lei, sono nel gran quadro un semplice antecedente, o, com'egli dice, un'«anticipazione», un convenuto e non dimostrato: il quadro è la mente umana nella natura e nell'ordine della sua esplicazione, la mente umana delle nazioni, la storia delle umane idee. La provvidenza regola il mondo, assistendo il libero arbitrio con la sua grazia, ed oltrepassando ne' suoi risultati i fini particolari degli uomini; ma questi risultati provvidenziali non sono più miracolo, sono scienza umana, sono lo «schiarire delle idee», lo «spiegarsi della mente». Come Bruno, Vico canta la provvidenza e narra l'uomo: non è più teologia, è psicologia. Provvidenza e metafisica sono di lontano, come sole o cielo, nello sfondo del quadro: il quadro è l'uomo, e la sua luce, la sua scienza è in lui stesso, nella sua mente. La base di questa scienza è moderna, ci è Cartesio col suo scetticismo e col suo «cogito». Ben talora, portato dall'alto ingegno speculativo, spicca il volo verso la teologia e la metafisica, ma Cartesio è là che lo richiama, e lo tiene stretto ne' fatti psicologici. Nel quale studio del processo della mente negl'individui e ne' popoli fa osservazioni così profonde e insieme così giuste, che ben si sente il contemporaneo di Malebranche, di Pascal, di Locke, di Leibnizio, il più affine al suo spirito, e ch'egli chiama «il primo ingegno del secolo». Nè solo è moderno nella base, ma nelle conclusioni, mostrando nell'ultimo spiegarsi della mente vittoriosi i princìpi de' nuovi filosofi. Perchè corona della sua epopea storica è lo spiritualizzarsi delle forme, il trionfo della filosofia, o della mente nella sua «riflessione», la fine delle aristocrazie, e perciò de' feudi e della servitù, la libertà e l'uguaglianza di tutte le classi, come stato delle società «ingentilite e umane», come ultimo risultato della coltura. È la teocrazia e l'aristocrazia conquise dalla democrazia per il naturale spiegarsi della mente, è l'affermazione e la glorificazione dello spirito nuovo. Ma qui appunto Vico se ne spicca e rimane solo in mezzo al suo secolo. Posto tra il mondo della sua biblioteca, biblico-teologico-platonico, e il mondo naturale di Cartesio e di Grozio, due assoluti, e impenetrabili come due solidi, e che si scomunicavano l'un l'altro, cerca la conciliazione in un mondo superiore, l'idea mobilizzata o storica, e in una scienza superiore, la critica, l'idea analizzata e giustificata ne' momenti della sua esistenza, la scienza uscita dall'assolutezza e rigidità del suo dommatismo, e mobilizzata come il suo contenuto. La critica è rifare con la riflessione quello che la mente ha fatto nella sua spontaneità. È la mente «spiegata e schiarita», che si riflette sulla sua opera e vi trova se stessa nella sua identità e nella sua continuità; è la coscienza dell'umanità. In questo mondo superiore tutto si move e tutto si riconcilia e si giustifica; i princìpi, che i nuovi filosofi predicavano assoluti e perciò applicabili in ogni tempo e in ogni luogo, e co' quali dannavano tutto il passato, si riferiscono a stati sociali di certe epoche e di certi luoghi; ed i princìpi contrari, appunto perchè in certi tempi hanno governato il mondo e sono stati «comportevoli», sono veri anch'essi, come anticipazioni e vestigi de' princìpi nuovi. Perciò il criterio della verità non è l'idea in sè, ma l'idea come si fa o si manifesta nella storia della mente, il senso comune del genere umano, ciò ch'egli chiama la «filosofia dell'autorità». Qui Vico avea contro di sè Platone e Grozio, il passato e il presente. La malattia del secolo era appunto la condanna del passato in nome di princìpi astratti, come il passato condannava esso in nome di altri princìpi astratti. Vico era come chi, vivuto solitario nel suo gabinetto, scenda in piazza d'improvviso, e vegga gli uomini concitati, co' pugni tesi, pronti a venire alle mani. A lui quegli uomini debbono sembrare de' pazzi da catena. - A che tanto furore contro il passato? Il quale, appunto perchè è stato, ha avuto la sua ragion d'essere. E poniamo pure sia tutto cattivo, credete di poter distruggere con la forza l'opera di molti secoli? I vostri princìpi! Ma credete voi che la storia si fa da' filosofi e co' princìpi? La vostra ragione! Ma ci è anche la ragione degli altri, uomini come voi, e che sanno ragionare al pari di voi. E poi, un po' di rispetto, io credo, si dee pure all'autorità. E non parlo di tanti dottori, ne' quali non avete fede: parlo dell'autorità del genere umano, al quale, se uomini siete non potete negar fede. Un po' meno di ragione, e un po' più di senso comune. - Un discorso simile sarebbe parsa una stranezza a quegli uomini pieni di odio e di fede. E qualcuno poteva rispondergli: - Fàtti in là, e sta' fra le tue nuvole, e non venire fra gli uomini, chè non te ne intendi. Il passato tu lo hai studiato su' libri: è la tua erudizione. Ma il passato è per noi cosa reale, di cui sentiamo le punture ad ogni nostro passo. Il fuoco ci scotta, e tu ci vuoi provare che, perchè è, ha la sua ragion di essere. Lascia prima che noi lo spengiamo, e poi ci parla della sua natura. Quando ci avremo tolto di dosso codesto passato, nostro martirio e de' padri nostri, forse allora potremo essere giusti anche noi e gustar la tua critica. - Vico rimase solo nel secolo battagliero; e quando la lotta ebbe fine si alzò come iride di pace la sua immagine su' combattenti, e comunicò la parola del nuovo secolo: «critica». Non più dommatismo, non più scetticismo: critica. Nè altro è la storia di Vico che una critica dell'umanità: l'idea vivente fatta storia e, nel suo eterno peregrinaggio seguita, compresa, giustificata in tutt'i momenti della sua vita. I princìpi, come gl'individui e come la società, nascono, crescono e muoiono, o piuttosto, poichè niente muore, si trasformano, pigliando forme sempre più ragionevoli, più conformi alla mente, più ideali. Indi la necessità del progresso, insita nella stessa natura della mente, la sua fatalità. La teoria del progresso è per Vico come la terra promessa. La vede, la formula, stabilisce la sua base, traccia il suo cammino, diresti che l'indica col dito, e quando non gli resta a fare che un passo per giungervi, la gli fugge dinanzi, e riman chiuso nel suo cerchio e non sa uscirne. Poneva le premesse e gli fuggiva la conseguenza. Gli è perchè, profondo conoscitore del mondo greco-romano, non seppe spiegarsi il medio evo, e non comprese i tempi suoi, parendogli indizio di decadenza e di dissoluzione quella vasta agitazione religiosa e politica, in cui era la crisi e la salute. D'altra parte lui, che negava l'esistenza di Omero, non osò sottoporre alla sua critica il mito di Adamo e le tradizioni bibliche e il dogma della provvidenza e la missione del cristianesimo, lasciando grandi ombre nelle sue pitture. Vedi la coscienza moderna rilucere nel mondo pagano, ardita nelle sue negazioni e nelle sue spiegazioni, e, quando sta per entrare nel mondo inquieto e appassionato de' vivi, chiudere gli occhi per non vedere. Ciò che è proprio de' grandi pensatori; aprire le grandi vie, stabilire le grandi premesse, e lasciare a' discepoli le facili conseguenze. Come Cartesio, Vico non indovinò i formidabili effetti che doveano uscire dalle sue speculazioni. Cartesio avrebbe rinnegati per suoi Spinosa e Locke, e Vico Condorcet, Herder ed Hegel. Poichè si occupa più degli antichi che de' moderni, più de' morti che de' vivi, i vivi lo dimenticarono. La sua Scienza parve più una curiosa stranezza di erudito, che una profonda meditazione di filosofo, e non fu presa sul serio. Intanto il secolo camminava con passo sempre più celere, tirando le conseguenze dalle premesse poste nel secolo decimosettimo. La scienza si faceva pratica, e scendeva in mezzo al popolo. Non s'investigava più: si applicava, e si divulgava. La forma usciva dalla calma scientifica, e diveniva letteraria; le lingue volgari cacciavano via gli ultimi avanzi del latino. Il trattato e la dissertazione divenivano memorie, lettere, racconti, articoli, dialoghi, aneddoti; forme scolastiche e forme geometriche davano luogo al discorso naturale, imitatore del linguaggio parlato. La scienza prendeva aria di conversazione, anche negli scrittori più solenni come Buffon e Montesquieu, conversazione di uomini colti in sale eleganti. Per dirla con Vico, la «sapienza riposta» diveniva «sapienza volgare», e, scendendo nella vita, prendeva le passioni e gli abiti della vita: ora amabile e spiritosa, come in Fontenelle, ora limpida, scorrevole, facile, come in Condillac e in Elvezio; ora rettorica e sentimentale, come in Diderot. Il «dritto naturale» di Grozio generava il Contratto sociale, la società era dannata in nome della natura, e l'erudita dissertazione di Grozio ruggiva nella forma ardente e appassionata di Rousseau. Lo scetticismo un po' impacciato di Bayle, velato fra tante cautele oratorie, si apriva alla schietta e gioiosa malizia di Voltaire. L'erudizione e la dimostrazione gittavano le loro armi pesanti e divenivano un amabile senso comune. La scienza diveniva letteratura, e la letteratura a sua volta non era più serena contemplazione, era un'arma puntata contro il passato. Tragedie, commedie, romanzi, storie, dialoghi, tutto era pensiero militante che dalle alte cime della speculazione scendeva in piazza tra gli uomini, e si propagava a tutte le classi e si applicava a tutte le quistioni. Le sue forme, filosofia, arte, critica, filologia, erano macchine di guerra e la macchina più formidabile fu l'Enciclopedia. Condorcet proclamava il progresso. Diderot proclamava l'ideale. Elvezio proclamava la natura. Rousseau proclamava i dritti dell'uomo. Voltaire proclamava il regno del senso comune. Vattel proclamava il dritto di resistenza. Smith glorificava il lavoro libero. Blackstone rivelava la Carta inglese. Franklin annunziava la nuova «carta» all'Europa. La società sembrava un caos, dove la filosofia dovea portare l'ordine e la luce. Una nuova coscienza si formava negli uomini, una nuova fede. Riformare secondo la scienza istituzioni, governi, leggi e costumi, era l'ideale di tutti, era la missione della filosofia. I filosofi acquistarono quella importanza che ebbero al secolo decimosesto i letterati. Maggiore era la fede in questo avvenire filosofico, e più viva era la passione contro il presente. Tutto era male, e il male era stato tutto opera maliziosa di preti e di re, nell'ignoranza de' popoli. «Superstizione», «pregiudizio», «oppressione» erano le parole, che riassumevano innanzi alle moltitudini tutto il passato. «Libertà, uguaglianza, fraternità umana» erano il verbo, che riassumeva l'avvenire. Tutto il moto scientifico dal secolo decimosesto in qua aveva acquistata la semplicità di un catechismo. La rivoluzione era già nella mente. Che cosa era la rivoluzione? Era il Rinnovamento che si scioglieva da ogni involucro classico e teologico, e acquistava coscienza di sè, si sentiva tempo moderno. Era il libero pensiero che si ribellava alla teologia. Era la natura che si ribellava alla forza occulta, e cercava ne' fatti la sua base. Era l'uomo che cercava nella sua natura i suoi dritti e il suo avvenire. Era una nuova forza, il popolo, che sorgeva sulle rovine del papato e dell'impero. Era una nuova classe, la borghesia, che cercava il suo posto nella società sulle rovine del clero e dell'aristocrazia. Era la nuova «carta», non venuta da concessioni divine o umane, ma trovata dall'uomo nel fondo della sua coscienza, e proclamata in quella immortale Dichiarazione de' dritti dell'uomo. Era la libertà del pensiero, della parola, della proprietà e del lavoro, l'eguaglianza de' dritti e de' doveri. Era la fine de' tempi divini ed eroici e feudali, il rivelarsi di quella «età umana», così ammirabilmente descritta da Vico. Il medio evo finiva: cominciava l'evo moderno. E che cosa era questa vecchia società, soprapposta a tutto il resto? Ci era alla cima il papato assoluto e la monarchia assoluta, che si pretendevano amendue di dritto divino, ed erano stampati sullo stesso modello. Il papato pretendea ancora al dominio universale, ma in parola e conscio della scemata possanza. Pur si facea valere mediante i gesuiti, e mantenea vigorosamente la sua influenza e la sua giurisdizione in tutti gli Stati. Come re, il papa governava in modi così assoluti come tutti i monarchi. L'assolutismo dominava in tutta Europa. Quello che era la corte romana al Cinquecento, erano allora tutte le corti: scostumatezza, dissipazione, ignoranza. I conventi screditati, chiamati «covi del vizio», «asilo dell'ozio e dell'ignoranza». Il clero, scemato di coltura e di riputazione, aumentato di numero e di ricchezza. I vescovi, adulatori in corte, tiranni nelle diocesi, signori feudali. I nobili, a' piedi del trono, e co' piedi sopra i vassalli. Altare e trono, appoggiati sul clero e sulla nobiltà: lì era la libertà, lì era il dritto; tutto il resto era poco o meno che cosa, e valeva assai poco. La fonte del dritto era nella concessione papale o sovrana: era investitura, privilegio, immunità, esenzione. Le leggi erano un caos. Leggi romane, longobarde, canoniche, feudali, usi, costumanze. Un altro caos erano le imposte. Ce n'erano del papa, del clero, de' baroni, del re, sotto molti nomi e molte forme. Che cosa era il popolo? Materia «taillable et corvèable a merci». Nessuna sicurezza per le proprietà e le persone, nessuna protezione nelle leggi, nessuna guarentigia nei giudizi, secrete le procedure, sproporzionate e arbitrarie le pene. Si può dire di quella vecchia società quello che allora già si diceva della proprietà feudale. Era manomorta, l'uomo così immobilizzato, come la terra. La palude non era solo nel territorio, era nel cervello. Dirimpetto a queste classi privilegiate, cristallizzate dal dommatismo, cioè a dire da un complesso d'idee ammesse per tradizione e fuori di ogni discussione, sorgeva lo scetticismo della borghesia, che tutto ponea in dubbio, di tutto facea discussione. La borghesia faceva in grandi proporzioni quello che prima compirono i comuni italiani. Era il «medio ceto», avvocati, medici, architetti, letterati, artisti, scienziati, professori, prevalenti già di coltura, che non si contentavano più di rappresentanze nominali, e volevano il loro posto nella società. Non è già che si affermassero anch'essi come classe, e volessero privilegi. Volevano libertà per tutti, uguaglianza di dritti e doveri, parlavano in nome di tutto il popolo. Qui era il progresso. Ma nel fatto erano essi la classe predestinata, e in buona fede, parlando per tutti, lavoravano per sè. La loro arma di guerra era lo scetticismo. Alla fede e all'autorità opponevano il dubbio e l'esame. Oggi è moda declamare contro lo scetticismo. Pure non dobbiamo dimenticare che di là uscì l'emancipazione del pensiero umano. Esso cancellò l'intolleranza religiosa, la credulità scientifica, e la servilità politica. Il movimento, che usciva dalle fila della borghesia, non era solo popolare, cioè nelle sue idee e nelle sue tendenze comune a tutte le classi, ma era ancora cosmopolitico, o, come si dice oggi, «internazionale». L'accento era umano, più che nazionale. L'America e l'Europa si abbracciavano in un linguaggio che esprimeva idee e speranze comuni; lo svizzero, l'olandese, il francese, il tedesco, l'inglese parevano nati nello stesso paese, educati alle stesse idee. Il movimento era universale nel suo obbiettivo e nel suo contenuto. L'obbiettivo erano tutte le classi e tutte le nazioni. Il contenuto era non solo una riforma religiosa, politica, morale e civile, ma un radicale mutamento nelle stesse condizioni economiche della società, ciò che oggi direbbesi «riforma sociale», correndo nel suo lirismo sino alla comunione de' beni. Nato dal costante lavoro di tre secoli, il movimento per la sua universalità contenea in idea o in germe tutta la storia futura del mondo pel corso di molti secoli. Pure, ciò che era appena un principio, sembrava esser la fine: tanto parea cosa facile effettuare di un colpo tutto il programma. Dove il movimento si mostrava più energico e concentrato, e di natura assolutamente cosmopolitica, era in Francia. Ed essendo la lingua francese già molto divulgata, la propaganda era irresistibile. Nelle altre nazioni appariva appena, e nelle sue forme più modeste. La forma più temperata di questo movimento era l'antica lotta tra papato e impero, divenuta lotta giurisdizionale tra la corte romana e le monarchie. In questo terreno i novatori avevano per sè i principi, e all'ombra loro spandevano le nuove idee. I giureconsulti stavano per antica tradizione coi principi, e difendevano i loro dritti contro la Chiesa con una dottrina ed un acume non scevro di sottigliezza sofistica: erano i liberali di quel tempo, e fu loro opera che le nuove idee si dilatassero nella classe colta. Nel campo avverso erano i gesuiti, inframmettenti, intolleranti, che invelenivano la lotta e ne allargavano le proporzioni. Erano essi lo sprone che stuzzicava l'ingegno. In quel contrasto si formò Paolo Sarpi; da quel contrasto uscirono le Provinciali di Pascal, e il giansenismo e la scuola di Portoreale e le libertà gallicane, preludi di quel movimento, che prendeva allora in Francia proporzioni così vaste. Ma in Italia il movimento iniziato con tanta larghezza e ardire nel Cinquecento, arrestato e snaturato dalla reazione trentina, si manteneva ancora in quella forma, era lotta giurisdizionale tra papa e principi. Il pensiero era ito molto innanzi, ma in pochi o tra pochi: ci erano fantasie solitarie; mancava l'eco, non ci era ancora la moltitudine. Ma il movimento in quella forma così circoscritta guadagnava terreno, e costituiva un vero partito politico, intorno al quale stava schierata tutta la borghesia. Era un liberalismo a buon mercato, via a fortuna e favori principeschi, quando rimaneva in quei limiti, e, attaccando curia e gesuiti, si mostrava riverente al papa e alla Chiesa. In Napoli la coltura avea preso questo aspetto, e mentre il buon Vico fantasticava una storia dell'umanità e andava col pensiero così lungi, fervea la lotta giurisdizionale, dov'erano principali attori giureconsulti eminenti, Capasso, D'Andrea, D'Aulisio, Argento, Pietro Giannone. I gesuiti cercavano appoggio nell'ignoranza popolare, e li predicavano empi e nemici del papa. L'avevano principalmente contro il Giannone, e tanto gli aizzarono contro il minuto popolo, che fu più volte a rischio della vita. Scomunicato dall'arcivescovo, per aver lasciato stampar la sua Storia senza il suo permesso, riparò a Vienna, nè osò più tornare a Napoli, ancorchè l'arcivescovo ci avesse avuto torto, e fosse stata ritrattata la scomunica. I giureconsulti sostenevano bastare per la stampa la licenza regia, non avere alcun valore la proibizione ecclesiastica, ed essere invalide le scomuniche senza fondamento di ragione. Era il libero esame applicato alla giurisdizione e agli atti ecclesiastici. E ci era sotto altro, lo spirito laico che si ridestava, e lo spirito borghese che si annunziava, il medio ceto, che all'ombra del principe, interessato anche lui nella lotta, si facea valere così contro la nobiltà, come e più contro il clero. Da questa lotta uscì la Storia civile del regno di Napoli, e più tardi il Triregno, di Pietro Giannone. La Storia per la sua universalità fu tradotta in molte lingue, riguardando principalmente la quistione giurisdizionale, ardente in tutti gli Stati cattolici. Giannone lasciò gli argomenti e venne a' fatti, prendendo il potere temporale fino nelle origini, e seguendolo ne' suoi ingrandimenti e nelle sue usurpazioni. È una requisitoria, tanto più formidabile, quanto maggiore è la calma dell'esposizione istorica e l'imparzialità continuamente ostentata dell'erudizione e della dottrina. Non mancano sarcasmi e punture, ma protesta sempre che è contro gli abusi e le esorbitanze, e affetta il maggior rispetto verso le istituzioni. Vedi prominente l'universalità della Chiesa, tutta la comunione dei fedeli, insino a che sorge usurpatore l'episcopato, assorbito a sua volta dal papato. Il concetto è questo, che il dritto è nella universalità de' fedeli: è la democrazia applicata alla Chiesa. Ma il concetto democratico è annacquato in quest'altro, che i principi, come capi della società laica, hanno ereditato i suoi dritti. Il popolo sparisce, ed entra in iscena Cesare con quel famoso motto: «Date a Cesare quel che è di Cesare». I gesuiti ritorcevano l'argomento, sostenendo che la fonte del dritto non è ne' principi, ma ne' popoli. Così democratizzavano i gesuiti per difendere il papato, e democratizzavano i giannonisti per combattere il papato. Erano inconseguenti gli uni e gli altri, e la vera conseguenza doveva tirarla il popolo contro il papato e la monarchia assoluta. S'immagini quale propaganda inconscia facevano. Era facile conchiudere, che se la fonte del dritto è nel popolo, sovrana legittima è la democrazia, l'universalità de' fedeli e l'universalità de' cittadini. Il vero padrone mettea il capo fuori, salutando gesuiti e giannonisti come suoi precursori, benemeriti tutti e due, perchè lavoravano gli uni a scalzare il principato assoluto, gli altri a scalzare il papato assoluto. Erano «istrumenti della provvidenza», avrebbe dettoVico, la quale tirava dall'opera loro risultati superiori a' loro fini. Si era sempre parlato dell'età primitiva della Chiesa. Una immagine confusa ne rimanea alle moltitudini, come dell'età dell'oro Dante, Machiavelli, Sarpi, Campanella richiamavano la Chiesa a quei tempi evangelici, più conformi alla purità del Vangelo. Quello era anche il cavallo di battaglia per gli eretici. Ecco quella età divenuta storia particolareggiata, accertata e in buono e chiaro volgare nelle pagine del Giannone. I primi tre secoli della Chiesa sono descritti coll'immaginazione vòlta alla Chiesa di quel tempo. Scrittore e lettore facevano il paragone. Di mezzo alla narrazione germogliava l'allusione, la confutazione, l'epigramma. Allora la gerarchia era molto semplice, e non ci erano che vescovi, preti, e diaconi, e i preti non erano soggetti a' vescovi, ma erano il loro senato, i loro consiglieri, e alla cima non ci era nessuno che comandasse: comandava il sinodo, l'assemblea de' vescovi. La legge era la sacra Scrittura; i provvedimenti presi nei sinodi erano semplici regolamenti per l'amministrazione delle chiese, e non ci era la ragion canonica,
La Chiesa non avea alcuna giurisdizione: la sua giustizia era chiamata «notio», «iudicium», « audientia», non «iurisdictio»; ed era censura di costumi, e arbitrato volontario. Clero e popolo eleggevano i vescovi, e anche nell'elezione de' preti e de' diaconi clero e popolo vi avevano lor parte. La Chiesa vivea di offerte volontarie, non avea stabili, e non decime Ciò che soverchiava, si dava a' poveri. Tale era la Chiesa primitiva:
I monaci erano pochi, solitari, e religiosi, ma la corruzione venne subito, e
Come non avea la Chiesa giustizia contenziosa nè giurisdizione, così non avea foro, nè territorio; perchè ciò «non dipende dalle chiavi, nè è di diritto divino, ma più tosto di diritto umano e positivo, procedendo dalla concessione o permissione de' principi temporali, ai quali solamente «Dio ha dato in mano la giustizia», come dice il Salmista: «Deus iudicium suum regi dedit». Nè avea potere d'imponer pene afflittive di corpo, d'esilio, e molto meno di mutilazione di membra o di morte; e ne' delitti più gravi di eresia toccava a' principi di punire con temporali pene i delinquenti. Degli abusi della Chiesa spettava il rimedio a' principi, che facevano leggi per porvi un freno, specialmente per gli acquisti de' beni temporali; e «i padri della Chiesa», come sant'Ambrogio e san Girolamo, «non si dolevano di tali leggi, nè che i principi non potessero stabilirle, nè lor passò mai per pensiero che per ciò si fosse offesa l'immunità o libertà della Chiesa». Federico secondo proibì l'acquisto de' beni stabili alle chiese, monasteri, templari ed altri luoghi religiosi.
Il potere temporale «appartiene allo Stato in corpo»; ma i principi hanno guadagnata e ottenuta la signoria in tutt'i paesi del mondo. E, se il romano pontefice e i prelati della Chiesa hanno «potere temporale», non è già
Questo quadro della Chiesa primitiva accompagnato con tali riscontri ti dà come in iscorcio tutto il processo della storia. La lotta tra le leggi canoniche e le civili è come il centro di un vasto ordito, che abbraccia tutta la storia della legislazione, illuminata dalla storia de' governi e delle mutazioni politiche. Vico e Giannone erano contemporanei. Giannone era di otto anni più giovane. Ma non parlano l'uno dell'altro, come non si conoscessero. Pure lavoravano su di un fondo comune, le leggi, e riuscivano per diversa via alle stesse conclusioni. L'uno era il filosofo, l'altro lo storico del mondo civile. Tutti e due avvocati mediocri, profondi giureconsulti. Vico si tenea alto nelle sue speculazioni filosofiche e nelle sue origini, e non scendeva in mezzo agl'interessi e alle passioni, e passò inosservato. Ma grandissima fu la fama e l'influenza dell'altro, perchè scende nelle quistioni più delicate di quel tempo, ed è scrittore militante, animato dallo stesso spirito de' combattenti. Parla ardito, e già con quel motteggio, che era proprio del secolo: sente dietro di sè tutta la sua classe, e tutti gli uomini colti. La persecuzione fece di lui un eroe, lo confermò nella sua via, lo spinse fino al Triregno, la più radicale negazione del papato e dello spiritualismo religioso, a volerne giudicare da' sunti. Il manoscritto fu seppellito negli archivi dell'Inquisizione. Il suo motto era: - Bisogna demolire il regno celeste -. Non gli basta più la polizia ecclesiastica: vuole colpire il papato nella sua radice, rompendo il legame che stringe gli uomini al cielo. Fa perciò una storia del regno celeste, come prima avea fatto una storia delle leggi ecclesiastiche; e, come questa è il centro di un quadro più vasto, quella è il centro di un quadro che abbraccia tutta l'umanità. Mostrare i dogmi nella loro origine, nelle loro alterazioni, nella loro negazione, scuotere la fede nel dogma della risurrezione degli uomini: questo fa con grande erudizione e con sottili considerazioni. Ma l'ambiente in Italia non era ancora tale, che vi potessero trovar favore idee così radicali, elaborate a Vienna e a Ginevra. La coltura avea sviluppato l'ingegno, ma non avea ancora formato il carattere. In Giannone stesso l'uomo era inferiore allo scrittore. Nè i tempi erano così feroci nella persecuzione, e così assoluti nella proibizione, che rendessero possibili le disperate resistenze sino al martirio. Ci era una mezza libertà, e perciò una mezza opposizione. Ci era il liberalismo del medio ceto, rivolto contro i baroni e i chierici, favorito dal sovrano, e perciò in certi limiti cortigiano, ipocrita, e, come si dice oggi, in guanti gialli. Un saggio delle idee di quel tempo e di questo modo di opposizione ce lo dà il seguente brano di uno scrittore napolitano di quella età: «La giusta idea che fossero i chierici ministri del regno del cielo gli aveva esentati da tutt'i pesi del regno della terra; e la cura destinata loro delle anime e del culto divino gli ha oltre misura arricchiti di beni e privilegi in questo mondo. Non è già nostra intenzione di diminuire in nulla la vantaggiosa opinione del clero presso il popolo: quEi ministri della religione li rispettiamo nel fondo del cuore. La religione è una delle prime leggi fondamentali dello Stato; e il senso di tali leggi non deve mai formare l'oggetto della discussione del semplice cittadino. Al consiglio del sovrano appartiene il decidere delle loro inutilità e vantaggi; siccome la sua suprema potestà ne crea o depone i ministri, ne fissa o sospende l'esercizio, i riti, le funzioni, ne spiega o vela le dottrine, o le vendica, altera ed abroga, conformemente a' lumi che su di ciò la divinità, di cui è il rappresentante, gl'ispira. Dico la «divinità», perchè altrimenti che significherebbe quel «Dei gratia rex»? Ascoltare e ubbidire, ecco in questo caso il dovere del suddito. Ma la religione, e soprattutto la vera religione, ordina agli uomini di amarsi, vuole che ciaschedun popolo abbia le migliori leggi politiche, le migliori leggi civili. Ella impone a' suoi ministri l'osservanza di queste leggi. Essi devono dare l'esempio: la loro condotta è la base della purità delle coscienze de' popoli. Ma, parlando a cuore aperto, hanno eglino da più secoli mai dato, o danno tuttora un tale esempio? Le loro immunità personali, l'esenzione de' loro beni da' tributi, le giurisdizioni usurpate, gl'immensi acquisti sorpresi, la maniera rigogliosa con la quale hanno sempre sostenuto tali giurisdizioni ed acquisti, le dottrine bizzarre da loro insegnate a tal fine, e tanti altri loro pretesi privilegi, dritti e riguardi non sono nel fondo tante manifeste infrazioni delle leggi politiche e civili? Essi sono troppo ragionevoli onde volere sottrarsi all'evidenza di questo argomento. Noi non parliamo a' sacerdoti di Cibele o di Bacco, e molto meno ai preti di Hume e di Rousseau: noi ci lusinghiamo di ragionare co' ministri della vera religione, e fra questi soprattutto con quei d'Italia, li quali si son quasi sempre distinti per l'affabilità e dolcezza del loro carattere, non meno che per l'aborrimento pel bigottismo e l'intolleranza. Non vi ha una contea, baronia o altro simile feudo, non vi ha una rendita stabile e fissa, un'abitazione comoda e decorosa destinata a compensare i sudori di un ministro di Stato, di un presidente, di un consigliere o di un generale; dove tanti guardiani, priori, vescovi ed abati possedono sotto questo titolo de' pingui feudi e rendite fisse intatte da' pesi de' sovrani ed intangibili, e le loro abitazioni fanno scorno a quelle de' principi. I frati, comechè giurino solennemente di osservare una maggior povertà del clero secolare, sono andati più oltre nell'accumulare, e han tolto a' poveri secolari i mezzi da potere sussistere. In coscienza potrebbono essi occupare nell'università le cattedre, nella Corte le cariche, nelle parrocchie i pulpiti, e fino nelle case l'intendenza degli affari domestici? Potrebbero senz'arrossire far da speziale, da mercante e da banchiere? In quanto al loro numero, è divenuto così eccessivo, che, se i principi non vi mettono presto rimedio, il loro vortice inghiottirà l'intiero Stato. Onde viene che il minimo villaggio d'Italia debba esser retto da cinquanta o sessanta preti, senza contare gl'iniziati di altro rango. Le città vi pullulano di campanili e i conventi fanno ombra al sole. Vi ha in qualcheduna di esse venticinque conventi di frati o suore di san Domenico, sette collegi di gesuiti, altrettante case di teatini, una ventina o trentina di monasteri di frati francescani, forse cinquanta altri di diversi ordini religiosi di ambi i sessi, e più di quattro o cinquecento altre chiese e cappelle di minor conto; ma non vi sono all'incontro che trentasei smilze parrocchie, verun osservatorio astronomico, verun'accademia di pittura, di scoltura, di architettura, di chirurgia, di agricoltura e di altre arti e scienze, veruna buona fabbrica di panni o di tele, veruna buona manifattura di seta o di cotone, veruna biblioteca appartenente al pubblico, verun orto botanico o gabinetto di curiosità naturali o teatro anatomico, veruna cura per rendere i porti netti, le strade comode ed agiate, gli alberghi propri e le città illuminate, il commercio più vivo. Pensano i chierici di dover sempre sentire i comodi della società senza mai sentirne alcun peso? che la bilancia penderà sempre a lor favore? che non vi sarà mai da sperar l'equilibrio?» Pittura viva di quel tempo nelle sue idee e nel suo linguaggio Si sente a mille miglia il laico, il borghese e l'avvocato. Il sovrano è per lui l'infallibile. Dovere del suddito è «ascoltare» e «ubbidire». Rispetta la religione; ha il maggiore ossequio verso i suoi ministri; li accarezza anche; e fra tante dolcezze che botte da orbo! Il suo dispetto è che quelli sieno così ricchi; e lui, cioè loro, fra tante strettezze. Se anche loro avessero un feudo, passi. Ci si vede l'effetto della coltura. Il confronto fra tante chiese e conventi, e tanta negligenza di scienze, arti, industrie e commerci, è eloquente. Si sente il progresso dello spirito con un carattere ancora volgare. L'animo è ancora servile, lo spirito si è emancipato. Tali erano i giureconsulti, da' quali usciva il movimento liberale, in quella forma un po' grottesca, tra l'insolenza verso il prete e la servilità verso il sovrano. Pure, teneri com'erano delle leggi, doveano essere portati naturalmente, per necessità della loro professione, a combattere l'arbitrio non solo ne' chierici, ma anche ne' laici, e a promovere una monarchia non più assoluta, ma legale, se non liberale. Questa tendenza è già manifesta in Giannone. Adora le leggi romane, ma adora innanzi tutto la legge, ed è inesorabile verso l'arbitrio:
Così la quistione ecclesiastica si allargava, e diveniva quistione legale, combattere l'arbitrio sotto ogni forma. Le usurpazioni de' nobili e de' chierici erano contrastate come illegittime, contrarie alle leggi politiche e civili. E del pari erano biasimati gli atti arbitrari nelle autorità secolari, e anche nel monarca. In questo pendio si andava molto innanzi. Arbitrio erano non solo gli atti fuori delle leggi, ma le leggi stesse non conformi a giustizia ed equità. Gli scrittori cominciarono a notare tutt'i disordini e abusi nelle leggi civili e criminali, e i principi lasciavano dire, perchè non si toccava della forma de' governi, nè era messa in dubbio la loro potestà, anzi si facea loro appello per isradicare gli abusi. Il moto liberale in Italia non veniva dalla filosofia o da «ragioni metafisiche», come dicea Giannone, ma da un intimo sentimento di legalità e di giustizia. Al Cinquecento il motto de' riformatori era la «corruttela de' costumi». Allora fu l'«ingiustizia delle leggi». Quel moto era religioso ed etico, questo era politico, quello stesso moto sviluppato nelle sue premesse e allargato nelle sue conseguenze. Il movimento, rimasto in gran parte speculativo e senza immediate applicazioni in Bruno, in Campanella, in Vico, quasi ancora un'utopia, allargandosi nella classe colta, si concretava nello scopo e ne' mezzi, per opera principalmente de' giureconsulti. Scopo era combattere i privilegi ecclesiastici e feudali in nome dell'eguaglianza, combattere l'arbitrio in nome della legge, e riformare la legge in nome della giustizia e dell'equità. La leva era il principato civile, elemento laico, legale e riformatore, sul quale si appoggiavano le speranze de' novatori. Le idee erano sviluppate con grande erudizione, con molta sottigliezza d'interpretazioni e di argomentazioni, come di gente avvezzata alle dispute forensi. In Germania il movimento era appena spuntato, rimasto nelle alte regioni della speculazione. Il sensismo di Locke avea generato lo scetticismo di Hume, e n'era nata una nuova speculazione sull'intelletto umano, una filosofia o una critica dell'intelletto, del quale Locke avea scritta la storia. Kant e poi Fichte concentravano lo spirito in quegli ardui problemi, e attendevano a gittare profonde le radici prima di alzare l'albero; pensavano alla base, sulla quale dovea sorgere la civiltà nazionale. Di questi filosofi in Italia era appena penetrato Locke, e in una traduzione mutilata dalla censura. Il movimento, come si andava sviluppando nell'Inghilterra e in Germania, aveva appena qualche eco in Italia, anzi anche colà penava a farsi via, dominato dagl'influssi francesi. La Francia era la grande volgarizzatrice delle idee dal secolo anteriore elaborate: era non la dimostrazione, ma l'epilogo; non la ricerca, ma la formola; non la speculazione, ma l'applicazione; la scienza già assodata ne' suoi princìpi e divenuta catechismo, in una forma letteraria e popolare, che rendeva la propaganda irresistibile. La negazione giungeva all'ultima sua efficacia nell'ironia bonaria di Voltaire, con tanto buon senso sotto tanta malizia. L'affermazione giungeva alla precisione di un catechismo in Rousseau, che combatteva quella società convenzionale in nome della società naturale, dalla quale scaturivano i dritti dell'uomo, il suffragio universale e la sovranità del popolo. Già la sua non era quasi più una speculazione filosofica: era una bibbia, filosofia divenuta sentimento, e calata nell'immaginazione. Montesquieu sollevava i più ardui problemi di politica e di legislazione, in una forma incisiva, la quale, più che scienza, era sapienza condensata e formolata. Intorno a questi centri si aggruppavano gli enciclopedisti, e una moltitudine di scrittori diversi d'ingegno e di coltura, ma tenuti tutti a quel tempo grandi uomini. Ben presto non ci fu più uomo colto in Italia che non li leggesse avidamente. Abbondarono i «filosofi», i «filantropi» e gli «spiriti forti», i nuovi nomi de' liberali o degli uomini nuovi, o novatori. I filosofi erano filantropi o amici dell'uomo, o umanitari, e insieme spiriti forti o liberi pensatori, che in nome della ragione o della scienza condannavano tutto ciò che nelle idee o ne' fatti se ne allontanava. La loro azione pubblica era avvalorata dalle associazioni secrete de' franchi muratori, mossi dagli stessi fini e dagli stessi sentimenti. Emancipare il pensiero e l'azione da ogni ostacolo esteriore, religioso o sociale, uguagliare giuridicamente le classi, provvedere all'istruzione e al benessere delle classi inferiori, queste erano le basi del nuovo edificio che si voleva costruire. Credevasi che tutto questo si potesse ottenere con articoli di leggi, a quel modo che avevano fatto Solone, Licurgo, Numa. E blandivano i sovrani, e li predicavano istrumenti provvidenziali per il rinnovamento del mondo. Si formò una pubblica opinione, il cui centro era Parigi, la cui voce erano i filosofi. Seguire la pubblica opinione, fare alcune riforme secondo i dettami de' filosofi era un mezzo di governo, un modo di acquistarsi fama e popolarità a buon mercato, come era nel secolo decimosesto il proteggere letterati e artisti. Il gran delitto del secolo, il violento attentato alla nazionalità polacca rimase seppellito sotto quel nembo di fiori che i filosofi sparsero sulla memoria di Elisabetta e Caterina seconda, di Maria Teresa e Giuseppe secondo e di Federico secondo, i cortigiani e i corteggiati di Voltaire, di D'Alembert, di Raynal, e degli enciclopedisti. Nè voglio già dire che fossero riformatori solo per calcolo: chè sarebbe calunniare la natura umana. Riforme benefiche, e non pericolose alla loro autorità, anzi buone a rafforzarla, le facevano volentieri, cospirando insieme l'utile proprio e l'interesse pubblico: il calcolo si accompagnava col desiderio del bene, col piacere delle lodi, e con l'intima persuasione, imbevuti com'erano delle stesse idee. Il simile avveniva in Italia. I principi gareggiarono nelle riforme, Carlo terzo e Ferdinando quarto, Maria Teresa e Giuseppe secondo, Leopoldo, Carlo Emmanuele, e fino papa Ganganelli, che alla pubblica opinione offerse in olocausto i gesuiti. I filosofi, domandando in nome della libertà e della uguaglianza l'abolizione di tutt'i privilegi feudali, ecclesiastici, comunali, provinciali, e di ogni distinzione di classi, o di ordini sociali, avevano seco i principi, che lottavano appunto da gran tempo per conseguire questo scopo, fondando il loro potere assoluto sulla soppressione di ogni libertà o privilegio locale. Fin qui filosofia e monarchia assoluta andavano di conserva. Lo stesso accordo era per le riforme economiche, amministrative e giuridiche, come semplicizzare le imposte, unificare le leggi, svincolare la proprietà, promovere l'industria e il commercio e l'agricoltura, assicurare contro l'arbitrio la vita e le sostanze de' cittadini. I principi ci stavano, e qual più, qual meno erano innanzi in quella via. Pensavano che, fiaccato il clero e la nobiltà, sciolte le maestranze, rimosse tutte le resistenze locali, sarebbe rimasta nelle loro mani la signoria assoluta, assicurata da' due nuovi ordigni che succedevano a quella compagine disfatta del medio evo, la burocrazia e l'esercito. E non pensavano che i princìpi da cui movevano quelle riforme, e che costituivano la pubblica opinione, menavano a conseguenze più lontane, essendo impossibile che abolendo i privilegi rimanesse salvo il privilegio più mostruoso, ch'era la monarchia assoluta e di dritto divino, e che, frenando l'arbitrio ne' preti, ne' baroni e ne' magistrati, potessero essi governare a lungo co' biglietti regi e i motupropri. Erano conseguenze inevitabili, che presto o tardi avrebbero condotta la rivoluzione anche se la Francia non ne avesse dato l'esempio. Ma per allora nessuno ci badava, e si procedeva allegramente nelle riforme, persuasi tutti che bastassero ministri «illuminati» e principi «paterni» per potere pacificamente e per gradi rinnovare la società. Gli scrittori non impediti, anzi incoraggiati e protetti, lasciavano le speculazioni astratte, e trattavano i problemi più delicati e di applicazione immediata con quella sicurezza che veniva e dall'applauso pubblico e dalla benevolenza de' principi, «direttori della pubblica felicità». Beccaria dice:
E Filangieri con entusiasmo meridionale così conchiude il libro secondo della sua Scienza della legislazione:
La filosofia è già oltrepassata. Non la si dimostra più, è un antecedente generalmente ammesso. Lo scopo non è fare una filosofia, inventare un sistema. Lo scopo è un apostolato, propagare e illustrare la filosofia, cioè la verità conosciuta da pochi uomini privilegiati. È la verità annunziata con tuono di oracolo, col calore della fede, come facevano gli apostoli. È una nuova religione. Ritorna Dio tra gli uomini. Si rifà la coscienza. Rinasce l'uomo interiore. E rinasce la letteratura. La nuova scienza già non è più scienza: è letteratura. |
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