Francesco De Sanctis - Opera Omnia >> Storia della letteratura italiana |
ildesanctis testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia # I MISTERI E LE VISIONI Al punto a cui siamo giunti, ci si porge chiara l'immagine delsecolo decimoterzo. Due sono le fonti di quella letteratura primitiva: la cavalleria e le sacre scritture. L'eroe della cavalleria, il cavaliere, è l'uomo che si sforza di realizzare in terra la verità e la giustizia, di cui è immagine la donna, suo culto e amore. La sua vita è attiva, piena di avventure e di fatti maravigliosi. Senti la sua presenza nella più antica lirica, nelle novelle, ne' romanzi e nelle cronache. Ma la cavalleria, venutaci di fuori, con gli stranieri che occupavano il nostro suolo, non prese radice, non si sviluppò, non produsse alcuna opera originale, rimase stazionaria. Perdette il suo carattere serio e quasi religioso e restò un puro gioco d'immaginazione, che si mescola come colorito e accessorio in tutte le storie, sacre e profane. Di ben altra efficacia era l'idea religiosa, penetrata ne' sentimenti e ne' costumi e nelle istituzioni, compagna dell'uomo in tutti gli stati della vita. L'eroe cristiano è chiamato pure «cavaliere», il «cavaliere di Cristo»; ma è un eroe contemplativo, il cui tipo è il frate, il romito, il santo. Come il cavaliere errante, anche lui rinunzia ed ha a vile i beni terrestri, ma la vita dell'uno è militante, quella dell'altro è contemplante: ci è in fondo la stessa idea, di cui l'uno è il soldato, l'altro è il sacerdote. Certo, questi due tipi entrano spesso l'uno nell'altro, e il frate diviene il templario o il cavaliere di Malta, soldato della fede, e il cavaliere errante finisce romito e penitente. Ma il cavaliere, gittandosi nelle più strane avventure, dimentica e fa dimenticare il cielo, attirata l'attenzione dal maraviglioso delle opere, sì che destano uguale curiosità e interesse le geste de' cristiani e de' saracini, e la rappresentazione rimane terrena. L'altro al contrario passando la vita ne' digiuni, nella povertà, nella castità e nell'orazione, ci tien sempre viva innanzi l'immagine dell'altro mondo; e perciò questa vita contemplativa è schiettamente religiosa; anzi è ivi la perfezione, ivi il più alto ideale. La passione dell'anima è l'esser legata al corpo, alla carne, e la sua beatitudine o santificazione è sciogliersi da quella e star con Cristo: al che è via la contemplazione e la preghiera. Nelle tre allegorie sull'anima pubblicate dal Palermo è detto: «Ogni bene e virtù, qualunque vogli, e buono in sè medesimo, ma la preghiera solamente trae a sè tutte le altre virtù». In queste allegorie compariscono tre esseri, che sono i tre gradi della santificazione: «Umano», «Spoglia» e «Rinnova». Dapprima l'anima, impacciata dal terrestre, dall'«Umano», non può scorgere il vero che sotto figura, nel sensibile. Il secondo essere, «Spoglia», è la virtù che monda e purga l'anima dagli affetti terrestri, insino a che viene «Rinnova», luce mentale, che «rinnova l'anima in tutto e mostra la verità senz'ombra e senza figura». Questi tre gradi di santificazione comprendono tutta la vita del cavaliere cristiano. Inviluppato nel senso e nella carne, non vede che un barlume del vero, e non giunge all'ultima luce mentale, all'ultimo grado, se non purificandosi e mondandosi della parte terrestre. Anch'egli ha le sue battaglie, ma col demonio e con la carne, ch'egli macera e mortifica d'ogni maniera, e le sue armi sono la contemplazione e la preghiera. Il maraviglioso di questa vita non è solo ne' miracoli, ma in quella forza di volontà che trae l'uomo a vincere tutti gli affetti e le inclinazioni naturali, com'è in santo Alessio, il tipo più commovente di questi cavalieri di Cristo. La creazione del mondo, il peccato originale, le profezie, la venuta di Cristo, la sua passione, morte e trasfigurazione, l'anticristo e il giudizio universale sono l'epopea, il fondo storico a cui si annodano tante vite di santi. E questa storia dell'umanità era tutt'i giorni innanzi al popolo, nella predica, nella confessione, nella messa, nelle feste. La messa non è altro che una rappresentazione simbolica di questa storia, un vero dramma senza che ce ne sia l'intenzione, rappresentato dal prete e da' fedeli. Ogni atto che fa il prete, è pieno di significato, è rappresentazione mimica. La prima parte della messa è epica o narrativa; è il Verbum Dei, l'esposizione che comprende le profezie e il Vangelo, e finisce con la predica. La seconda parte è drammatica, è l'azione, il Sacrificium, l'adempimento delle profezie. La terza parte è lirica, come nelle risposte de' fedeli (il coro) al prete, o quando due cori si alternano nel canto, e negl'inni e nelle preghiere: ciò che ha luogo principalmente nella messa cantata. Aggiungi le immagini de' santi e i fatti dell'antico e del nuovo Testamento in quelle cappelle, in quelle finestre variopinte, in quelle cupole, e quelle grandi ombre, e quelle moli restringentisi sempre più e terminate da croci slanciate verso il cielo, ed avrai l'immagine e l'effetto musicale di questo stacco dalla terra, di questo volo dell'anima a Dio. Dopo l'evangelo, il predicatore talora, per fare più effetto sull'immaginazione, esponeva la sua storia sotto forma di rappresentazione, come si fa in parte anche oggi ne' quaresimali. I monaci e i preti rappresentavano il fatto, e il predicatore aggiungeva le sue spiegazioni e considerazioni. Era una rappresentazione liturgica, cioè legata al culto, parte del culto, detta «divozione» o «mistero». Di tal natura sono due divozioni, che si rappresentavano il giovedì e il venerdì santo, e sono piuttosto due atti di una sola rappresentazione che due rappresentazioni distinte. La prima comincia col banchetto che Cristo ebbe in casa di Lazzaro sei giorni avanti Pasqua, e che qui è il giovedì santo. Cristo viene da Gerusalemme, Maria con Maddalena e Marta gli va incontro. Maria prega il figlio di non tornare a Gerusalemme, perchè vogliono la sua morte. Cristo risponde dover ubbidire al Padre: pur si conforti, che niente farà che non lo dica a lei. Alla fine del banchetto Cristo scopre a Maddalena che dee ire a Gerusalemme, dove patirà il supplizio della croce, e le raccomanda la madre. Cristo esce. Sopraggiunge Maria, che ha visto il figlio turbato, e la prega a svelarle quello che il figlio le ha detto. Maddalena tace. E la madre va a Cristo tutta in lacrime, e dice:
Cristo dice che pel riscatto del mondo dee ire a morte, e Maria sviene. Tornata in sè e lamentandosi, raccomanda il figlio a Giuda, che risponde in modo equivoco: - So quello che ho a fare. - Poi si volge a Pietro, che promette difendere il figlio contro tutto il mondo. Giunti a una porta della città, Maria non vuol separarsi dal figlio; ma quando non lo vede più e sa che per un'altra porta è entrato in Gerusalemme, fa pietosi lamenti innanzi al popolo:
Segue il racconto secondo la Bibbia. Le parole di Cristo, tolte al Vangelo, sono dette in latino. E la «divozione» finisce con la prigionia di Cristo. La «divozione» del venerdì santo racconta la passione e la morte di Cristo. Il predicatore interrompe la rappresentazione con le sue spiegazioni, e fa cenno quando si ha a continuare. Maria vi rappresenta una gran parte. Mentre Cristo prega pe' suoi nemici, ella dice alla croce:
Cristo la raccomanda a Giovanni, che inginocchiandosi e baciandole i piedi cerca racconsolarla. Ma essa abbraccia la croce e si lamenta:
Quando Cristo muore, Maddalena gli sta a' piedi, al capo Giovanni, Maria nel mezzo. E bacia il corpo di Cristo, gli occhi, le guance, la bocca, i fianchi, le mani «con le quali benediva il mondo», i piedi su' quali «Maddalena sparse tante lacrime». Queste rappresentazioni erano antichissime, e si scrivevano in latino, come il Ludus paschalis, rappresentazione di Pasqua, dove è messo in azione l'anticristo. Le due «divozioni» avanti discorse non sono probabilmente che versioni o imitazioni di opere più antiche, rimase nella tradizione. Tale era pure la rappresentazione del Nostro Signore Gesù Cristo, che ebbe luogo a Padova nel 1243, e il Ludus Christi, una trilogia rappresentata dal clero in Cividale negli ultimi due giorni di maggio il 1298. Nella Pentecoste e ne' tre seguenti giorni il capitolo di questa città, in presenza del vescovo e del patriarca di Aquileia, diede questa serie di rappresentazioni: la creazione di Adamo ed Eva, la profezia o l'annunzio, la nascita, morte e risurrezione di Cristo, la discesa dello Spirito santo, l'Anticristo, e la venuta di Cristo nel giudizio universale. Era tutta l'epopea biblica, fatta evidente e sensibile dalla musica, dal canto, dalle scene, dalla mimica e dalla parola. Tale era pure la Passione, rappresentata a Roma nel Coliseo il venerdì santo, dalla Compagnia del gonfalone nel 1264. Queste rappresentazioni, di cui i preti erano attori e attrici, aveano tutto il carattere di solennità o feste o cerimonie religiose. Il diavolo vi ha pure la sua parte di tentatore, ma parla in modo serio e semplice, secondo la sua natura, e non ha niente di grottesco e di ridicolo. Chiuse nel recinto delle chiese, de' conventi e delle curie vescovili, rimangono tradizionali e immobili, senza sviluppo artistico, come anche oggi si vedon in parte nelle feste del contado. La moralità di queste rappresentazioni era che il fine dell'uomo è nell'altra vita, o come si diceva, è la salvazione dell'anima; che per conseguire questo fine si ha a imitare Cristo, soffrire in questo mondo per godere nell'altro. Perciò l'ideale, l'eroico o, come si diceva, la «perfezione della vita» era il dispregio de' beni di questo mondo, la resistenza a tutte le inclinazioni naturali e il vivere in ispirito nell'altro mondo con la contemplazione e la preghiera. Questa è la vita de' santi, della quale si dava anche rappresentazione a' fedeli. E tra le più antiche è una ancora inedita, che ha per titolo: D'uno monaco che andò a servizio di Dio, probabilmente recitata a monaci da monaci in un convento. L'eroe è questo monaco, un giovinetto che resiste alle lacrime della madre, alle querele del padre, alle tentazioni del compare, e si rende frate nel deserto, dove è accolto come figlio da un romito. Ma ivi prove più dure l'attendono. Mentre egli va a raccogliere per il pasto radici, frutta, castagne e noci, il romito prega, e mosso da curiosità chiede a Dio qual luogo spetti al suo novizio in paradiso, e un angelo risponde che sarà dannato. Non perciò della notizia si turba il giovinetto, anzi risponde tranquillo che continuerà ad amare e servire Dio. Invano il demonio lo tenta, dicendogli che «ha guastato l'amor naturale», e che il meglio sarà tornare in casa del padre, chè forse Dio gli avrà misericordia. Il giovinetto con gli scongiuri fuga il demonio, e rimane fermo nella sua risoluzione. Allora l'angiolo annunzia al romito ch'egli è salvo. E il monaco e il romito intuonano il Te Deum o una lauda. Nell'epilogo o commiato sono esortati gli spettatori a castigare la carne e a pensare alla vita eterna. Anima della rappresentazione è l' invitta fede del giovane monaco, che la preghiera e la contemplazione è la più sicura guardia contro il peccato e la tentazione della carne, e che si giunge alla santificazione con rinunziare al mondo e vivere con lo spirito in Dio. Questo concetto è espresso in una forma scolastica nel canto del monaco, di cui ecco alcuni brani:
Ci è una rappresentazione, intitolata Commedia dell'anima, che è una storia ideale della vita de' santi, una specie di logica, dove sono le idee fondamentali della santificazione, l'ossatura e lo scheletro di tutte le vite de' santi. L'anima esce pura dalle mani di Dio e a sua immagine. Dio la contempla con amore, dicendo:
Ma il demonio, invidioso che «sì vil cosa abbia a fruire quel regno, del qual esso è privato», si apparecchia a darle battaglia. L'angelo custode conforta l'anima, e le presenta la Memoria, l'Intelletto e la Volontà: le sue «potenzie». L'Intelletto parla dopo la Memoria e dice:
E la Volontà dice:
L'Intelletto dice alla Volontà:
E la Volontà risponde:
L'anima confortata alza la preghiera a Dio, e l'angelo custode aggiunge:
Cioè a dire, non bastano le tre potenzie naturali, Memoria, Intelligenzia, Volontà, perchè l'anima piaccia al Signore; ci vuole anche la sua grazia, l'ardente fiammella che dee cacciare il drago, il demonio. E Dio manda ad assisterla le virtù teologiche, Fede vestita di colore celeste, con una croce nella mano destra e nella sinistra un calice e suvvi la patena; Speranza vestita di verde, con gli occhi fissi al cielo e le mani giunte, Carità vestita di rosso, con un parvolino per mano. Intanto il demonio chiama l'Eresia, la Disperazione, la Sensualità e tutte le sue forze capitanate dall'Odio. Le tre virtù intorniano l'anima. La Fede dice dell'esser suo, e san Giovanni Crisostomo celebra la sua potenza. Ma l'Infedeltà con acri parole la rampogna:
Allora la Speranza viene in soccorso:
Ma l'anima teme, pensando la sua debolezza:
La Speranza le pone avanti l'esempio de' santi, e soprattutto di santo Agostino:
Allora l'assale la Disperazione e dice:
Ma l'anima risponde allo scherno, cacciandola da sè:
Segue un'altra disputa tra la Carità, della quale san Paolo celebra le lodi, e l'Odio, in cui spunta l'ombra di un carattere, qualche cosa di simile a un capitano millantatore:
L'ultima battaglia è tra il Senso o la Sensualità e la Ragione. L'anima pregando si sente sopraffatta dal corpo:
E la Sensualità, così invocata, le dice beffando:
Ma ecco la Ragione dire all'anima:
E saputo il fatto, dice della sua nemica:
- Ma che dovevo fare? - dice l'anima:
La Sensualità non se ne spaventa, e dopo uno scambio di villanie aggiunge:
La Ragione è vinta e l'anima cede. Ella desidera una ghirlanda con un nodo,
E il demonio aggiunge:
Così la Ragione è impotente senza la Grazia. Comparisce Dio stesso:
L'anima pentita del mal pensiero risponde:
Allora Dio le manda in soccorso le virtù cardinali, Prudenza, Temperanza, Fortezza, Giustizia, Misericordia, Povertà, Pazienza, Umiltà. Ciascuna parla di sè, citando talora questo o quel passo della Bibbia. Ecco alcuni brani:
L'anima contrita e fortificata alza un canto a Dio:
Colpita da grave infermità, dice:
Intorno alla morente fanno l'ultima battaglia l'angiolo e il demonio. Gli argomenti dell'angiolo si possono ridurre in questi tre versi:
Dio accoglie l'anima e pronunzia il suo giudizio:
E l'angiolo dice
E il coro accompagna l'anima al cielo con questo canto:
Così finisce questa rappresentazione, detta «commedia» perchè si conchiude con la salvazione e non con la perdizione dell'anima. È detta anche «misterio», per la sua natura allegorica. È uno degli antichissimi misteri liturgici, ritoccato, ripulito, rammodernato e fatto laico a' tempi di Lorenzo de' Medici e forse più in là, a giudicare dalla forma franca e spigliata, da certi tentativi di formazione artistica, come nelle figure del demonio, dell'Odio, della Sensualità, della Povertà, e da un certo non so che beffardo e grottesco, che svela poca serietà e unzione nello scrittore e negli spettatori. Ma se la trama è moderna, la stoffa è antica, e ricorda il duello del Senso e della Ragione, così comune negli scritti volgari che apparvero prima, e la battaglia de' vizi e delle virtù del Giamboni, e le tre allegorie cristiane. Anzi questa Commedia dell'anima non è se non le tre allegorie messe in rappresentazione. Là trovi tre gradi di santificazione, Umano, Spoglia e Rinnova. E anche qui l'anima è prima combattuta dal senso e cade ne' suoi lacci, perchè «umana cosa è cascare in errore», poi fa la sua penitenza, si spoglia e si monda della scoria del peccato, e così a Dio si rimarita, come dice Dante, o, come dice il nostro autore, sta «al convito celestiale con veste bella e nuziale». Questi tre gradi aveano la loro formazione liturgica nell'inferno, purgatorio e paradiso, che erano appunto il senso, l'Umano puro, abbandonato a se stesso, lo Spoglia o la penitenza, che purga o monda l'anima, e il Rinnovamento o la luce mentale, la beatitudine. Questo era il concetto delle rappresentazioni che aveano a materia l'altro mondo, come quella di cui fa menzione Giovanni Villani, che ebbe luogo a Firenze. L'altro mondo era la storia, o come si diceva la «Commedia dell'anima», la quale non potea giungere a redimersi dall'umanità, dal corpo, dalla carne, dall'inferno, se non con la penitenza, purificandosi e purgandosi, e così contrita e confessa diveniva leggiera, saliva al cielo. Questa Commedia spirituale dell'anima, di cui ho voluto dare un sunto possibilmente esatto, è il codice di quel secolo, il contenuto astratto e generale, particolarizzato nelle vite, nelle leggende, ne' trattati e nella lirica Spiritus intus alit. Lo spirito che alita per entro a quelle prose e a quelle poesie è la «Commedia dell'anima». Ma in tante prose e in tante poesie non ci è ancora un vero lavoro d'individuazione e di formazione. Il contenuto rimane nella sua astratta semplicità, innominato e impersonale, l'anima. Essendo il suo fondamento la contemplazione e non l'azione, o un'azione negativa, la resistenza agl'istinti e agli affetti naturali, non penetra nella vita, non ne assume tutte le forme, non diventa la società. Certo, quell'azione negativa è molto poetica, è il sublime religioso, e tocca il cuore, quando è rappresentata con semplicità e unzione. Ma in questo contrasto tra il sentimento religioso e la natura, ciò che move più è il grido della natura, come ne' lamenti della madre di santo Alessio o di santa Eugenia, o nel dolore d'Isacco nel Sacrifizio di Abraam, che all'annunzio della sua morte chiama la madre:
Quantunque questo non sia che uno de' lati più angusti e solitari della vita umana, così ricca e varia ne' suoi aspetti, pure offre contrasti e gradazioni, che lo rendono capacissimo di un grande sviluppo artistico. Ma in quel suo albore la letteratura ha lo stesso carattere che mostra nella decadenza, la naturalità o materialità del contenuto. Tante vite e storie e leggende e visioni stuzzicavano la curiosità con la varietà e novità degli accidenti, e si attendeva più allo spettacoloso, a colpire l'immaginazione con apparizioni nuove e maravigliose, che a lavorarle e svilupparle. Mancava la virtù di mettersi gli oggetti a distanza e trasformarli: la realtà anche nuda era per se stessa maravigliosa e bastava ad ottenere l'effetto, operando in modo semplice e immediato sullo scrittore e su' lettori. Oltrechè, siccome il contenuto riposava su di una dottrina liturgica, stabilita e inalterabile, poco era accomodato ad una rappresentazione libera e artistica, anche quando usciva dalla chiesa e dal convento ed era maneggiato da' laici, come fu anche de' misteri. Impadronirsi di quel contenuto, cacciarlo dalla sua generalità, dargli corpo e persona, sarebbe sembrata una profanazione. Lo spirito mirava a rendere accessibile quella dottrina per via di esempli, di sentenze e di allegorie, come si vedea nella Bibbia. Il reale, il concreto non avea valore se non come figura della dottrina. Ecco ad esempio in che modo è nella Commedia dell'anima figurato il paradiso:
Le ultime parole spiegano la figura. Quella è la fontana della divina Grazia. Con questa tendenza lo scrittore sta contento alla semplice personificazione e gli pare di aver fatto assai a dare una immagine che renda chiaro e sensibile il suo concetto. Oltre a ciò, l'uomo colto, schivo delle forme semplici e volgari dell'umile credente, mira a trasformare quella dottrina in un contenuto scientifico, e la traduce nelle forme scolastiche, e di questa fede ragionata e sillogizzata fa la filosofia, figliuola di Dio. Lo studio del secolo è di allegorizzare e dimostrare, anzichè di rappresentare; è di chiarire quel contenuto, lumeggiarlo, volgarizzarlo, ragionarlo, anzichè coglierlo in azione e nell'atto della vita. Perciò l'opera letteraria tiene dell'allegoria e del trattato, e ciò che è mera rappresentazione rimane nell'infanzia. Mai non ti senti ben fermo in terra, in mezzo a uomini vivi, con tali caratteri, passioni e costumi, anzi lo scrittore ti par quasi estraneo alla società e alle sue lotte, e dimora nell'astratta e monotona generalità della sua contemplazione. E quando pur scende a rappresentare la vita, ti senti d'un tratto balzato nel regno de' misteri, delle leggende e delle visioni, nell'altro mondo. La visione è in effetti la forma naturale di questo contenuto, quando si vuol rappresentarlo. La vita e la realtà è il senso, la carne, il peccato, e lo scrittore o guarda e passa, o se pur vi si trattiene, è per maledirla, rappresentandola non quale appare in terra, ma quale è nell'altro mondo. La rappresentazione è dunque la visione della realtà, come sarà dopo la morte, e là si spazia e si diletta l'immaginazione. E se il mistero è commedia, ed ha per conclusione la santificazione e la beatitudine, la visione è spesso pittura delle pene infernali, lasciate alla libera immaginazione de' predicatori, de' vescovi, de' frati, de' santi Padri, che col terrore operavano sulle rozze immaginazioni. Laghi di zolfo, valli di fuoco o di ghiaccio, botti d'acqua bollente, rettili, vermi, dragoni da' denti di fuoco, demòni armati di lance, di fruste, di martelli infocati, cadaveri putridi e inverminiti, scheletri tremanti sotto una pioggia di ghiaccio, dannati inchiodati al suolo con tanti chiodi che «non pare la carne», o sospesi per le unghie in mezzo al zolfo, o menati e rapiti da velocissime ruote di fuoco simili a «cerchi rosseggianti», o infissi a spiedi giganteschi che i demòni irrugiadano di metalli fusi: ecco la realtà delle visioni, rappresentata co' più vivi colori. I tre monaci che si mettono in viaggio per iscoprire il paradiso terrestre, dopo quaranta giorni di cammino attraversano l'inferno:
Nella Vita di Santa Margherita si trova questa pittura del dragone:
Tra le visioni è celebre il Purgatorio di San Patrizio di frate Alberico, e quella d'Ildebrando, poi Gregorio settimo, che predicando innanzi a papa Niccolò secondo, narra di un conte ricco, e insieme onesto, «ciò che è proprio un miracolo in questa gente», egli dice. Questo conte, morto dieci anni innanzi, fu visto, da un santo uomo ratto in ispirito, starsi al sommo d'una scala lunghissima, che ergevasi illesa tra le fiamme e si perdeva giù nell'inferno. Su ciascuno scalino stava uno degli antenati del conte, con quest'ordine, che quando alcuno moriva di quella famiglia, doveva occupare il primo gradino, e colui che vi giaceva e tutti gli altri scendevano di un grado verso l'abisso, dove tutti l'uno appresso l'altro si sarebbero riuniti. E chiedendo il santo uomo come fosse dannato il conte, che avea lasciata in terra buona fama di sè, si udì una voce rispondere: - Uno degli antenati, di cui il conte è l'erede in decimo grado, tolse al beato Stefano un territorio nella chiesa di Metz; e per questo delitto tutti costoro sono involti nella stessa dannazione. - Questa pena, che colpisce un'intera generazione, è molto poetica, mostrando l'inferno nel sublime d'un lontano indeterminato, messo costantemente innanzi all'immaginazione de' condannati, che a grado a grado vi si avvicinano insino a che non vi caggiano entro: come quel tiranno che voleva che le sue vittime sentissero di morire, il terribile prete vuole che ei sentano l'inferno. Da queste visioni e misteri e prose e poesie si sviluppa questo concetto: che attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, è il peccato; che la virtù è negazione della vita terrena, e contemplazione dell'altra; che la vita non è la realtà, ma ombra e apparenza di quella; che la vera realtà non è quello che è, ma quello che dee essere, ed è perciò la scienza, o la verità, come concetto, e come contenuto, è l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio e il paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia. Appunto perchè l'individuo è pulvis et umbra, e la realtà è pura scienza ed un di là della vita, questo mondo resiste ad ogni sforzo d'individuazione e di formazione. Lo stesso amore, così possente, non ci può gittare un po' di calore e non ci vive se non come figura e immagine dell'amore divino. La donna, come donna, è peccato; essa diviene una specie di medium che lega l'uomo a Dio. Il maggior grado di realtà, a cui questo mondo sia pervenuto, è nella lirica di Dante. La donna di quel secolo acquista il suo nome e la sua forma, è Beatrice, la fanciulla uscita pura dalle mani di Dio, come l'anima nella commedia spirituale, breve apparizione, tornata così presto in cielo tra' canti degli angioli. La sua vita terrena è quasi non altro che nascere e morire. La sua vera vita comincia dopo la morte, nell'altro mondo. Ivi è luce mentale o intellettuale, verità e scienza, filosofia. Ma non è filosofia incarnata, mondo vivente, dove l'idea di Dio o del vero sia perfettamente realizzata; è pura scienza, incapace di rappresentazione nella sua forma scolastica di trattato e di esposizione. È scienza non ancora realizzata, non ancora corpo; è idea, non è visione; è didattica, non è commedia o rappresentazione. Hai «misteri» e visioni; manca il Mistero e la Visione, cioè un mondo vivente nel suo insieme e ne' suoi aspetti, dove sia realizzato quel concetto teologico e filosofico dell'umanità, comune al secolo e rimasto ancora nella sua astrazione dottrinale. Il secolo decimoterzo si chiudeva, lasciando una lingua già formata, molta varietà di forme metriche, una poetica, una rettorica, una filosofia, ed un concetto della vita ancora didattico e allegorico, con rozzi tentativi di formazione e individuazione. Il suo primo individuo poetico è Beatrice, il presentimento e l'accento lirico di un mondo ancora involto nel grembo della scienza, ancora fuori della vita. |
|